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La passione italiana di un Don Giovanni tedesco

La passione italiana di un Don Giovanni tedesco

Marco Meneguzzo

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La collezione della Fondazione Vaf, istituita da Volker W. Feierabend, si estende dal Futurismo a oggi: «Quando ho iniziato, l’arte moderna del vostro Paese era poco conosciuta. Ed è stato un modo per ringraziare l’Italia, che mi aveva consentito l’agiatezza in cui vivevo»
Passione e ragione, secondo Volker W. Feierabend, sono le due pulsioni che muovono il collezionista. Se la prima è riconducibile, come lui stesso ha dichiarato, a una sorta di sindrome di Don Giovanni, non appagata sino a che non culmina con il possesso della cosa di cui ci si è innamorati, la seconda non deve essere estranea alle indiscutibili doti imprenditoriali di questo berlinese (classe 1935), che ha fatto fortuna come imprenditore nel ramo dell’import-export di abbigliamento e calzature.
Nei molti viaggi intrapresi nello svolgimento di questa attività si è innamorato dell’Italia: così, molto prima che l’arte moderna del nostro Paese diventasse di moda tra i collezionisti, le sue acquisizioni si sono concentrate su questo versante, dopo aver spaziato dai mobili settecenteschi alle avanguardie europee di inizio Novecento, dalle porcellane all’arte orientale.
Oggi la collezione della Vaf Stiftung, la fondazione con sede a Francoforte da lui creata con la moglie Aurora (e documentata in un Catalogo generale pubblicato da SilvanaEditoriale nel 2012 a cura del Mart di Rovereto, che conserva parte delle opere), è nell’insieme una mappa dell’arte italiana del XX e del XXI secolo. Tuttavia, siccome il gusto personale è un elemento tutt’altro che secondario negli acquisti di Feierabend, non si tratta di un raccolta enciclopedica, bensì di un percorso in cui non mancano esclusioni tanto clamorose quanto volute, e autori non ancora compiutamente valorizzati.
Volker Feierabend, cominciamo da un dato: quante sono le opere della sua collezione?
Ora le mie personali sono 769, mentre quelle della Fondazione Vaf, che nasce comunque dalla collezione, sono 2.050.
Ha iniziato da subito con l’arte moderna e contemporanea italiane o proviene da altri tipi di collezionismo?
Avevo cominciato, molto orgogliosamente, con opere antiche, con quadri dal XVI al XVIII secolo e, quando ormai ne avevo quasi quaranta, li ho fatti valutare da un esperto: erano tutte «croste»! Non mi son fidato di quell’esperto e ne ho interpellato un altro che, più possibilista, mi aveva detto che forse uno o due di questi non erano proprio da buttar via... Da quel momento ho deciso di occuparmi solo di artisti viventi o documentati senza ombra di dubbio!
E il suo avvicinamento all’arte, alla pratica del collezionare, com’è avvenuto?
Mio padre era professore di filosofia, e io al liceo seguivo le lezioni d’arte, dove si praticava anche il disegno, cosa per me disastrosa: quel che doveva essere figurativo nei miei disegni sembrava astratto!
Dopo il liceo, e cioè agli inizi degli anni Cinquanta, mi sono impiegato come apprendista in una ditta di moda. Sono diventato commesso, poi dirigente di un negozio, poi dirigente e capo acquisti per tutta la catena di negozi.
Nel 1963 me ne sono andato da Berlino, dove sono nato, anche per l’atmosfera politica susseguitasi all’erezione del Muro. Mi sono trasferito a Francoforte dove ho fondato una mia azienda, nello stesso campo della moda. Per molti anni non ho avuto casa: vivevo in hotel, lavoravo diciotto ore al giorno senza ferie, e quando tornavo a Francoforte dopo i miei viaggi in Italia, dove mi approvvigionavo dei prodotti di moda, e in Europa, dormivo in ufficio.
Alla metà degli anni Settanta ho deciso di smettere: avevo guadagnato molto, mi ero sposato con Aurora e desideravo una casa che volevo riempire con tutto ciò che ci piaceva, dai vetri liberty agli avori antichi; tuttavia questa non era ancora una collezione, era accumulare oggetti di gusto.
Per la collezione, che a quel punto desideravo iniziare metodicamente, ho pensato che collezionare artisti tedeschi era inutile: in Germania ci sono già troppi collezionisti di questo tipo e la qualità dipende solo dall’entità del portafoglio. Ho pensato all’arte dell’Est Europa, ma era davvero troppo difficile in quegli anni conoscerla e soprattutto farla uscire dalla cosiddetta «Cortina di ferro». Invece l’arte italiana era ancora poco conosciuta, se non attraverso pochissimi nomi, e questo sarebbe stato anche un modo per «ringraziare» il Paese con cui avevo lavorato di più, e che mi aveva consentito l’agiatezza di cui godevo.
Poi è venuta la Fondazione?
Sì. L’idea è stata quella di mantenere unita la fatica di una vita (Vaf sta per Volker e Aurora, mia moglie, Feierabend), senza pensare che andrà dispersa dopo la morte, com’è avvenuto a raccolte importanti, come ad esempio alla collezione De Angeli Frua e alla Von Hirsch.
Certo, significava alienare la proprietà della collezione ed essere sottoposto negli acquisti alla decisioni collegiali di un «curatorium», cioè un comitato, e a un controllo annuale da parte delle autorità tedesche, visto che l’ho costituita a Francoforte, ma in compenso lo statuto e la condizione stessa di «fondazione» aiuta molto nella «mission» che ci siamo dati, che è quella della diffusione dell’arte italiana, soprattutto fuori dall’Italia: siamo alla settima edizione del premio Vaf per i giovani artisti italiani, che in primavera si terrà al Macro di Roma; pubblichiamo libri su artisti italiani, l’ultimo è quello su Chiara Dynys (edito da Umberto Allemandi, Ndr); ci adoperiamo per allestire mostre italiane in musei e gallerie tedesche; cerchiamo di inserire opere italiane, magari in prestito, in collezioni museali europee.
Quale metodo critico ed economico ha seguito nella costituzione della collezione?
Ho iniziato negli anni Settanta, pensando di collezionare il XX secolo italiano sino al 1945. Ma già negli anni Ottanta i nomi del ’900 italiano erano per quell’epoca irragionevoli, o comunque per me irraggiungibili, pur avendo io alcuni dei capolavori dell’arte italiana della prima metà del secolo. Al contrario, gli anni Sessanta e Settanta costavano ancora poco.
Tuttavia, gli anni Ottanta sono comunque gli anni del trionfo dell’arte italiana, anche in senso mercantile: sono gli anni della Transavanguardia...
È vero. Tuttavia, proprio la Transavanguardia non era di mio gusto e per questo non l’ho collezionata. Pensavo che dopo aver visto l’Espressionismo tedesco, la Transavanguardia ne fosse un epigono, cosa che si può dire anche dei Neue Wilden tedeschi dello stesso periodo.
Dunque l’anima della sua collezione e del suo modo di collezionare si potrebbe definire una sorta di metodica storica, dettata però dal gusto personale?
Certo. Ho comprato sempre solo ciò che mi convinceva e non ho mai comprato solo il «nome». Ho frequentato gallerie, in special modo Giorgio Marconi a Milano e Stefano Fumagalli a Bergamo, e musei più degli artisti, con l’eccezione di quelli milanesi che erano vicini; ho cercato di studiare l’artista che mi accingevo a valutare e, almeno all’inizio, non trattavo sui prezzi: ho speso certo molto di più di quel che avrei potuto, ma questo mi ha consentito di essere tra i primi, se non il primo, a essere interpellato quando c’era qualche opera importante sul mercato.
Qual è la virtù più importante del collezionista?
La capacità di prendere decisioni immediate. Ora devo consultarmi col «curatorium» della Fondazione, ma spesso basta una telefonata per autorizzarmi a comprare. Una volta, di fronte a due capolavori, uno di Carrà e uno di Casorati, di cui potevo permettermi l’acquisto di uno solo, ho invece deciso di acquistarli entrambi. Questo mi ha costretto a sudare per i nove mesi successivi, ma la collezione è diventata importante anche per questo acquisto «azzardato».
Si è mai pentito di qualcosa?
Pentito d’aver venduto, questo sì...
Quindi è inevitabile che il collezionista debba anche vendere?
Nel mio caso, non avendo più l’azienda, ho dovuto cercare altre risorse: vendere dove avevo tanto, per acquistare dove ritenevo di avere delle mancanze. Poi ho stretto un contratto col Mart di Rovereto, all’inizio del millennio e fino al 2032 (nella Ue non si possono fare contratti d’affitto di più di trent’anni), per l’esposizione iniziale di cento opere tra le più significative della storia dell’arte italiana. Tra l’altro, anche tutta la mia biblioteca sull’arte italiana moderna e contemporanea, che consta di diverse migliaia di volumi, è destinata allo stesso museo.
Che cosa consiglierebbe a un collezionista di oggi?
Di non comprare mai per speculazione: i nomi e i gusti cambiano abbastanza rapidamente. Di «vivere» con l’opera, comprando dunque per se stessi. Di non fidarsi di artisti troppo «lanciati» da gruppi di pressione. Quando vedo collezioni in cui ci sono i soliti nomi di americani, tedeschi, italiani e inglesi, che rispondono alle solite indicazioni di mercato, penso magari di trovarmi di fronte a una raccolta di grandi opere, ma non a una collezione.
Possiamo allora dire, aggiungendo qualcosa a quanto detto sopra sul «metodo per collezionare», che la collezione per lei è il contesto, l’humus in cui nascono i capolavori o i grandi artisti? E che ciò che conta è la storia, il momento, per cui possono esistere artisti o opere cosiddetti «minori» che pure hanno lo stesso valore dei più noti, grazie alla storia, allo sviluppo del linguaggio artistico in un dato periodo storico?
Certo! Le faccio un esempio: nel Gruppo Tempo 3 di Genova, pochissimo conosciuto, uno dei partecipanti, Arnaldo Esposto (1933-96), ha lavorato agli inizi degli anni Sessanta sulle estroflessioni, come Castellani o Bonalumi: per me, è valido alla stessa maniera di questi.
Progetti particolari suoi e della Fondazione, per il futuro?
Uscirà il catalogo generale di Pompeo Borra, e il prossimo anno quello di Gianfilippo Usellini. Sono autori del Novecento, che oggi è un po’ dimenticato dalla critica e dal mercato.
Voglia di andare controcorrente? 
Come sempre!
 

Marco Meneguzzo, 07 gennaio 2016 | © Riproduzione riservata

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