Elena Abbate
Leggi i suoi articoliCome annunciato in luglio, dal 31 ottobre Marcella Pralormo non è più la direttrice della Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli che ha guidato fin dal 2002. Ripercorriamo con lei la sua esperienza, dalla decisione di far nascere lo spazio per la collezione nell’edificio appositamente progettato da Renzo Piano alla ricca proposta nel campo della didattica e delle conferenze, fino all’attività espositiva di cui Pralormo è stata l’artefice, sempre chiamando curatori specifici per ogni singola mostra, fino a quella in corso dedicata alla Fondation Maeght. La nuova direttrice sarà Sarah Cosulich, a Torino già alla guida di Artissima (2012-16) e poi, a Roma, della Quadriennale di Roma (2017-20).
Come è approdata alla Pinacoteca Agnelli e qual è stata la sua formazione?
Mi sono laureata a Torino con Andreina Griseri sulla tecnica del pastello, perché mi interessavano, e mi interessano tutt’ora, le tecniche artistiche, capire come sono fatti i quadri, non solo guardarli. Dopo la laurea mi sono specializzata a Firenze in museologia e museografia con Mina Gregori e ho iniziato a studiare la storia dei musei. Ho quindi fatto uno stage al Louvre, quando Pierre Rosenberg era direttore del Dipartimento di pittura, dove ho capito che mi piaceva il lavoro sul campo: quando il museo era chiuso e si andava in giro con lui nelle sale a vedere qualunque cosa, dal bagno rotto al quadro che andava restaurato. Nel frattempo ho iniziato a lavorare, occupandomi di mostre, prima a Palazzo Bricherasio, che aveva appena aperto, poi a Palazzo Grassi a Venezia, quando era di proprietà della Fiat. Il primo vero museo in cui ho lavorato, occupandomi non solo di mostre, ma anche di collezioni, è stata la Gam di Torino, dove ho avuto una bellissima esperienza con Pier Giovanni Castagnoli e Giovanna Cattaneo. Era il momento in cui la Gam è diventata un’istituzione autonoma e sono state fatte moltissime mostre, un periodo veramente appassionante. Ed è proprio nei quattro anni alla Gam, dal 1998 al 2002, che ho avuto l’occasione di incontrare l’avvocato Agnelli, che appena aveva un momento libero, andava in un museo e visitava mostre. Nell’inverno del 2001, durante la mostra su De Nittis, mi capitò di accompagnarlo in visita un lunedì, giorno di chiusura del museo. Aveva suonato il campanello, con lui c’era il dottor Gabetti. A dicembre 2001 ricevo una telefonata in cui mi dicono che dovevo fare un colloquio con l’avvocato Agnelli. In quel momento mai più mi sarei immaginata di venir via dalla Gam. In quel colloquio ero abbastanza agitata, perché l’Avvocato era curiosissimo e mi faceva mille domande sulle opere d’arte e i collezionisti. Era incuriosito dal fatto che io avessi avuto una borsa di studio alla Fondazione Longhi: era molto incuriosito da Roberto Longhi e Anna Banti, mi chiedeva com’era la casa. Era molto interessato a tanti aspetti non così scontati dell’arte. Nel frattempo il Lingotto era stato trasformato da Renzo Piano, a partire dalla fine degli anni ’80 e negli anni ’90, e l’avvocato Agnelli aveva l’idea di aprire un museo. Quel dicembre ho saputo che avrei dovuto andare a lavorare alla futura Pinacoteca Agnelli. Ho iniziato a lavorare a marzo 2002, quando il museo ancora non c’era. Il museo venne inaugurato nel settembre 2002. È stata una bellissima avventura, all’inizio ero da sola, e facevo tutto: portavo i pacchi al corriere, ritiravo la posta, andavo a vedere il cantiere, parlavo con gli autori che stavano scrivendo le schede per il catalogo con Mario Andreose, facevo restaurare le cornici. Fu davvero un lavoro complesso, perché aprire un museo dal niente non è proprio una passeggiata, nonostante avessi dietro la struttura di Palazzo Grassi.
La Pinacoteca nasce per esporre un nucleo di opere della collezione della famiglia Agnelli. Qual era l’impostazione istituzionale originaria?
La Pinacoteca è una fondazione riconosciuta dalla Prefettura e le opere sono vincolate all’edificio del Lingotto, al luogo all’interno di questa struttura disegnata da Renzo Piano che si chiama «Lo Scrigno». Sono 25 opere che rappresentano il gusto personale dell’avvocato Agnelli e di donna Marella, i fondatori della Pinacoteca, che hanno scelto tra i loro capolavori alcune pietre miliari per condividerle con la città. La Pinacoteca è una fondazione privata aperta in via permanente alla città. Conserva opere molto significative, come i Canaletto, che a Venezia ricordo dicevano «Che meraviglia, li vorremmo avere noi al Correr». L’avvocato Agnelli e donna Marella avevano tantissimi mercanti d’arte che proponevano loro le opere, ma sapevano scegliere il momento migliore dell’artista migliore. Avevano un occhio coltivato visitando musei, mostre, gallerie. Questo è il segreto che tutti dovremmo mettere in pratica: vedere il più possibile mostre e opere d’arte in giro per il mondo.
L’Avvocato e donna Marella scelsero insieme le opere per la Pinacoteca?
L’Avvocato diceva che i vedutisti non ci si stanca mai di guardarli perché all’inizio sembrano delle cartoline, ma dentro un quadro di Canaletto e di un vedutista ci sono mille storie e questo lo affascinava moltissimo. C’è l’operaio che lavora sul tetto della chiesa, il senatore con il mantello rosso che attraversa il campo e che rappresenta il potere della città, c’è Palazzo Ducale, quindi il Doge, il capo della città, c’è il Bucintoro, le cerimonie che venivano celebrate a Venezia. L’Avvocato e donna Marella durante l’allestimento del museo venivano insieme e traspariva una forte sintonia in fatto di scelte artistiche. Avevano una grande passione per Matisse, che in Italia non è così consueta perché non ce ne sono tanti, per vederli bisogna andare in Francia, in Russia, altrove. Dicevano che Matisse era la gioia del colore e l’essenza della forma, i suoi quadri rasserenano quando li guardi. L’avvocato Agnelli aveva anticipato quello che hanno poi studiato i neuroscienziati, affermando che l’arte dà gioia. Lo studioso di neuroestetica Semir Zeki dice che se l’occhio ripercorre la pennellata di un quadro, il cervello ne ha un beneficio perché tutti gli ormoni del benessere si mettono in circolo. Calarsi nell’opera d’arte dà benessere, non pensi più ai problemi della tua vita quotidiana.
Oltre a Matisse e i vedutisti?
Nella collezione ci sono due Picasso che loro amavano moltissimo, uno del Periodo blu, che era stato comprato di recente, nel 1999-2000 da Alfred Taubman, e un Picasso cubista, comprato dalla famiglia de Beaumont, dipinto durante la guerra, molto raro e di dimensioni enormi, che avevamo anche prestato al MoMA. Lo avevo accompagnato io nel 2003 in un cargo Alitalia partito da Malpensa insieme a dei cavalli, che andavano anche loro in America. Nel cargo sentivi i cavalli che sgroppavano vicino al quadro, ma era poi andato tutto bene.
Erano anche appassionati di arredi e mobili antichi: perché nel museo non inclusero oggetti?
La Pinacoteca non è una casa museo, è un museo il cui nome rimanda appunto ai dipinti. Ci sono due sculture di Canova, gessi preparatori per marmi, ma la collezione è costituita da 23 quadri e due sculture. Penso comunque che a loro in realtà interessasse di tutto perché la curiosità, lo sguardo, l’occhio che li guidava non avevano limiti; l’arte li ha sempre accompagnati ed erano convinti che l’arte debba accompagnare tutti perché è qualcosa che ti aiuta nella vita.
Era previsto fin dall’inizio che la Pinacoteca dovesse svolgere un’attività espositiva?
Il progetto di Renzo Piano, un museo di 2.800 metri quadrati che si sviluppa in verticale nato discutendo con l’Avvocato e Donna Marella, prevedeva già in origine due piani per le mostre. Fin dall’inizio c’era anche l’idea di lavorare sulle attività educative per avvicinare le persone all’arte. L’Avvocato è morto nel gennaio 2003 e non abbiamo avuto il tempo di costruire con lui il programma che abbiamo poi sviluppato dopo.
Che cosa è cambiato quando Ginevra Elkann è diventata presidente della Pinacoteca nel 2006?
Ragionando con Ginevra, le avevo detto: «I tuoi nonni sono stati dei grandissimi collezionisti. Voi avete relazioni in tutto il mondo con collezionisti altrettanto noti e importanti, quindi mi sembra che una delle strade che si potrebbero intraprendere è quella del collezionismo». Lei ha accolto questa mia proposta e così abbiamo iniziato a lavorare sul tema: grazie alle relazioni della famiglia abbiamo potuto esporre collezioni che non si potevano vedere, come quella di Bruno Bischofberger, quella di Johnny Pigozzi e tante altre.
Quali sono i ricordi più vividi delle 33 mostre che ha organizzato?
La prima mostra che ricordo con passione è «Why Africa?» nel 2007, con Johnny Pigozzi, collezionista di arte africana. È stata una bellissima esperienza perché in Pinacoteca sono venuti anche artisti: il grande fotografo Malick Sidibé e tanti altri da tutta l’Africa, dal Congo, dal Madagascar. Ester Mahlangu, un’artista del Sud Africa aveva dipinto una Cinquecento con le piume di gallina. Un’altra mostra che proprio mi è rimasta nel cuore è «The Museum of Everything», organizzata con il collezionista inglese James Brett che colleziona solo artisti autodidatti e outsider che hanno avuto problemi o mentali o fisici. Si trattava di artisti che non erano nati come artisti in senso canonico, non tutti avevano frequentato l’Accademia, il liceo artistico e poi un percorso più tradizionale, ma erano arrivati all’arte come necessità interiore facendo altro di professione. Per esempio Henry Darger, che lavorava in un ospedale, austriaco, e poi di notte, tra un turno e l’altro, realizzava lavori frutto del proprio immaginario. È stata un’esperienza speciale perché James Brett ha portato lui stesso da Londra le opere su camion. Noi gli avevamo detto: «Portane un centinaio perché lo spazio è quello» ed è arrivato con 800 opere. Con la sua squadra di sei persone le ha allestite una vicina all’altra a quadreria. Opere incredibili di artisti speciali, fuori dall’ordinario. Anni dopo «The Museum of Everything» c’è stata la Biennale di Gioni in cui è stato trattato il tema dell’arte autodidatta. Il bello di questo lavoro sono soprattutto le relazioni che si creano con gli artisti e con i collezionisti. Il collezionista crea un suo mondo molto speciale, non ne esiste uno uguale all’altro.
Il tema del collezionismo oggi è dappertutto. Le mostre della Pinacoteca hanno aperto nuove strade?
Da qualche tempo in molti hanno iniziato a occuparsi di collezionismo, ma penso che la Pinacoteca sia stata pioniera in questo senso. Ha inaugurato fin dal 2007 un filone di ricerca, di mostre e conferenze. Oltre a «The Museum of Everything» ricordo il ciclo organizzato con Paolo Colombo: abbiamo coinvolto artisti internazionali come Ed Ruscha, Tony Oursler e Rosemarie Trockel, che hanno scelto opere dai musei della città di Torino da affiancare ai propri lavori. Portare questi artisti a dialogare con le opere della città è stato un modo di valorizzare la città attraverso lo sguardo di qualcuno che non era mai stato qui, o c’era stato molto velocemente. Guardare la tua città attraverso lo sguardo di uno straniero è un bel modo di riguardare quello che hai vicino. Per esempio Tony Oursler era rimasto estasiato dagli ex voto della Consolata. Rosemarie Trockel dai quadri di Palazzo Madama e dei Musei Reali. Ed Ruscha dagli zootropi e dai teatrini d’ombre del Museo del Cinema.
Molto bella è stata la mostra curata da Martino Gamper e organizzata con la Serpentine di Londra. Gamper aveva scelto biblioteche e librerie disegnate dai designer e aveva esposto sugli scaffali collezioni di ogni tipo, dai sassi ai bicchieri, dai libri ai dischi, appartenenti a noti designer internazionali. Con Gamper si lavora molto bene: con l’artista sei tu che devi soprattutto andare verso di lui, il designer invece trova la soluzione. Lavorare con un designer è una cosa che consiglio a tutti, perché ti insegna anche come risolvere i problemi, ti facilita il lavoro.
Alcune iniziative sono state novità assolute per la città.
Un progetto veramente bello, finanziato dagli Amici della Pinacoteca Agnelli e organizzato con l’Istituto Svizzero, è stato il Congresso dei Disegnatori del 2015, anche perché connesso alle attività educative della Pinacoteca. Era un progetto di Pawel Althamer, l’artista polacco, che aveva portato in tante città del mondo, da Roma a New York a Londra. Lui sceglie un luogo della città dove porta le persone a disegnare per un mese intero, notte e giorno, e si crea un’opera d’arte collettiva. S’inizia disegnando con la matita, poi si passa al pennarello nero e gli ultimi giorni si usano i colori. L’ultima sera si dipinge coi colori fluo, fosforescenti, che si vedono di notte, e si fa una festa con un dj che mette la musica. Lo abbiamo fatto da Toolbox Coworking sotto corso Dante ed è stato un bel modo di accogliere quindicimila persone che hanno disegnato durante un mese. Coinvolgevano tutti, anche i curiosi che non capivano di che cosa si trattasse. C’era chi passava da lì e chiedeva: «Posso farmi fare un ritratto?», «No, lei deve venire qua a disegnare con noi!» o chi diceva «Se vengo qua posso comprare un quadro?», «No, deve venire lei a disegnare.». E poi bambini delle scuole, gruppi di persone con diversi tipi di disabilità. Abbiamo invitato anche dei critici, dicendo: «Venite qui, c’è il Congresso dei disegnatori» e loro pensavano di dover fare uno speech, ma in realtà a tutti dicevamo: «Adesso anche tu devi disegnare!». Se non sei un artista disegnare ti sembra una cosa che non sei capace di fare, mentre è una cosa profondamente necessaria. Munari diceva che tutti dovremmo disegnare, perché vuol dire progettare, vuol dire creare qualcosa. È uno skill importante che poi nella vita ti serve, i bambini dovrebbero continuare a disegnare anche in là, alle medie, al liceo. Mi sono accorta che a volte metteva un po’ in crisi: c’erano persone che andavano in un angolino, facevano una righina e dicevano «Ma io non so disegnare». In realtà tutti sappiamo disegnare.
Un altro pilastro della Pinacoteca è quello dei servizi educativi. Quando nasce?
Si è sviluppato a partire dal 2003 ma è diventato un grande progetto, che coinvolge tanti bambini e ragazzi delle scuole. Fin dall’inizio ho voluto offrire i programmi educativi ogni weekend, perché a Torino c’erano degli ottimi servizi educativi nei musei, ma le famiglie erano un po’ in secondo piano rispetto alle scuole. In Pinacoteca abbiamo deciso di sistematizzare il servizio, in modo che ogni domenica ci fosse un’attività per le famiglie. Poi, quando è nata l’Associazione Amici della Pinacoteca, abbiamo inserito altri progetti, sia per le scuole sia sociali, per esempio quello per i ragazzini usciti dal carcere che sfrutta la rabbia come energia creativa: guardando le opere della Pinacoteca la rabbia viene trasformata in un’attività manuale creativa. Abbiamo creato un progetto per le donne vittime di violenza, per aiutarle a recuperare la propria femminilità dopo un trascorso molto difficile, guardando le opere d’arte, per esempio il ritratto di Picasso del periodo Blu con una donna con un cappello bellissimo e dei gioielli. I tanti percorsi che abbiamo creato per le scuole di ogni ordine grado e per le famiglie mi hanno appassionato molto, perché il museo senza visitatori non esisterebbe. Bisogna andare incontro ai visitatori e chiedere loro ogni tanto con i questionari che cosa piace, che cosa migliorare, che cosa modificare. Questo è importante.
In questi 20 anni, nei quali Torino ha subito trasformazioni molto forti, com’è stato il rapporto con la città?
La Pinacoteca si è relazionata fin dall’inizio con la città: ci siamo inseriti nel circuito dell’abbonamento musei e abbiamo fatto sistema con le istituzioni della città. Con Artissima, essendo vicini, fin da subito c’è stato un dialogo. Abbiamo sempre avuto un’inaugurazione durante Artissima, in modo da portare i collezionisti anche in Pinacoteca. Con la Gam abbiamo organizzato una mostra sui disegni di Klimt. Quando nel 2008 è stata lanciata Torino Capitale mondiale del design, abbiamo ospitato la mostra sulla collezione di Alexander Von Vegesak, il direttore del Vitra Design Museum, una bellissima collezione di design. Un dialogo costante con tutte le istituzioni della città è proseguito negli anni e prosegue ancora oggi.
Nel nuovo scenario sociale e antropologico che stiamo sperimentando con la lenta uscita dalla pandemia, quale visione si è fatta sul futuro dei musei e sul rapporto del cittadino con i musei?
La Pinacoteca ha portato a Torino collezioni e artisti internazionali, ha allargato un po’ lo sguardo della città. E ha offerto questo sguardo ai visitatori di tutte le età, portarndo l’arte, il collezionismo, ai bambini e agli adulti, a tutti. Adesso si apre un altro scenario, la Pinacoteca ha appena inaugurato un piano in cui c’è il museo della 500 e la pista del Lingotto. Inizia una nuova epoca, in cui entrano in scena altri valori ed è giusto che sia qualcun altro a portare avanti una nuova missione. Per quello che riguarda i musei, penso che si dovrà ripensare come fare le mostre. Il modello delle mostre va ripensato e va probabilmente ripensata anche la parte educativa. Anche se i musei sono tornati alla capienza al 100%, allo stesso tempo si devono gestire flussi e mantenere il distanziamento, quindi si parla sempre di capienze ridotte. I gruppi in visita, che una volta erano composti da 20-25 persone, adesso sono da 10 per mantenere il distanziamento di un metro. Si apre uno scenario in cui ci sarà un lavoro molto più intimo, più a tu per tu con i bambini, coi visitatori. Secondo me è un bene. Non ho mai amato le mostre con troppa gente. Sono piccola, vedevo le teste delle persone, non vedevo i quadri e mi innervosivo un po’. Con il distanziamento, riesco finalmente a vedere le opere. Il futuro è «slow», più lento, ci si potrà immergere di più nell’opera. Non parlo delle mostre immersive digitali, ma proprio del contemplare. La contemplazione come un valore. Guardare un’opera d’arte può far stare bene. Io credo molto nel valore dell’arte come portatrice di benessere e lavoro su questo da tanti anni. In Pinacoteca abbiamo iniziato a parlarne dal 2002. È un valore che voglio portare avanti nel mio futuro professionale.
In una realtà cambiante l’arte come fonte di benessere rimarrà una certezza, come aveva intuito l’avvocato Agnelli con i vedutisti
Bisogna evolvere, perché un museo è di per sé un’istituzione più immobile. È difficile che un museo riesca ad essere flessibile come può esserlo un’azienda. È necessario che cambino alcune cose nei musei, senza dimenticare la storia, ripartendo dalle proprie radici, da quello che c’è. Bisogna lavorarci.
Lei è anche anche un’appassionata acquarellista…
Sì, mi piace moltissimo l’acquerello. Ho sempre il mio carnet per dipingere quando vado in vacanza. Ho anche scritto un libro sull’acquarello in Piemonte. È una tecnica che mi appassiona perché l’acqua non la puoi controllare, lei va dove vuole. Siccome la programmazione e il controllo fanno parte del mio lavoro, nel privato l’acquerello mi permette di liberarmi. L’acquerello è un maestro di vita, perché spesso si crea un effetto che non si voleva ottenere, e questa tecnica ti insegna a trasformare l’errore per creare qualcos’altro, come nella vita.
Altri articoli dell'autore
Le mozioni per non ammettere gli artisti d’Israele e dell’Iran alla Biennale di Venezia contraddicono l’essenza stessa dell’arte che è la libertà di espressione individuale
Lo storico dell’arte è scomparso a Firenze a 84 anni. Era stato ministro dei Beni culturali nel Governo tecnico di Lamberto Dini
La nuova serie podcast di Nicolas Ballario promossa per la 50ma edizione della prima fiera d’arte italiana e dedicata ad alcuni tra i più importanti galleristi del secondo Novecento
Teoria e pratica nei corsi del Gruppo d’Arte formato da Delfina Platto, Daniela Baldon, Daniel Bossini, Monica Maffolini, Mara Dario, Giorgia Peri, Mauro Ottuzzi