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Guido Costa
Leggi i suoi articoliSu Nan Goldin, sul suo lavoro e sulla sua vita, sono state scritte migliaia di pagine, molte tesi di laurea, girati documentari e film, e lei stessa, con estrema generosità, si è raccontata in tutte le sue opere, fotografiche e video. È tra le artiste più note e celebrate al mondo, almeno da tre decenni, e non soltanto tra gli addetti ai lavori. Scriverne con ragione di causa aggiungendo qualcosa al già detto è pressoché impossibile e rischia di scivolare nell’agiografia e nella retorica. E in più l’ho già fatto tante volte su quasi tutti i suoi libri e cataloghi e francamente non avrei nulla da aggiungere, non essendo un critico, un accademico, o uno scrittore. Eppure, per tante ragioni, artistiche, personali ed esistentive, gran parte della mia vita adulta si è intrecciata con la sua, nel bene e nel male, come capita nelle famiglie, anche in quelle disfunzionali. E come era normale nel mondo dell’arte, prima che il denaro, la speculazione e le multinazionali del lusso trasformassero tutto in deserto, convertendo il patrimonio estetico in puro e semplice patrimonio.
Quando ho incontrato Nan, verso la metà degli anni ’90 tutto ciò era già nell’aria, ma in forma ancora larvale e tutto sembrava andare nel verso giusto, come una sorta di risarcimento dopo tempi durissimi per tutti noi che vivevamo di arte. Ci incontrammo a Napoli, dove dirigevo una galleria, Theoretical Events, interessata a esporre la nuova fotografia statunitense, allora del tutto inedita in Italia. Ai tempi, Nan Goldin era molto conosciuta in patria, lavorava con gallerie importanti e il suo primo libro, The Ballad of Sexual Dependency, era già considerato una sorta di classico. In Italia quasi nessuno l’aveva mai sentita nominare. Di lì a un paio di anni, nel 1996, ci sarebbe stata la sua consacrazione definitiva, segnata dall’enorme successo della sua prima retrospettiva museale, al Whitney Museum, «i’ll be your mirror». A Napoli era nostro uso, se possibile, produrre mostre che avessero a che fare con il luogo, al termine di lunghi soggiorni in città dell’artista, ospite della galleria, insomma, ciò che nel futuro sarebbe stato definito residenza d’artista. Con Nan era stato tutto molto semplice, sia perché già conosceva la città, avendola visitata nel 1986, sia perché in quel periodo viveva a Napoli con la famiglia di uno dei suoi amici di più lunga data, Philip Lorca Di Corcia.
Fu così che ci conoscemmo e fu così che iniziarono un’amicizia e un sodalizio creativo che dura ormai da più di trent’anni. La mostra mise assieme fotografie inedite degli anni ’80, risalenti al suo primo soggiorno napoletano con Cookie Mueller, Teri Toye, Vittorio e Daniele Scarpati e altri suoi amici dell’epoca, con nuovi scatti, realizzati tra Napoli, Capri, Positano e Stromboli. Il tutto, qualche anno dopo, si trasformò in un piccolo volume, Ten Years After, atto di nascita della casa editrice West Zone (poi Trolley), appena fondata da me e Gigi Giannuzzi. Da quel momento e per tutti gli anni a venire, si creò tra di noi una sorta di famiglia nomade e allargata e un’intesà creativa declinata in innumerevoli progetti, tra mostre, libri e avventure di vita. Nel tempo tale famiglia, che allora ci piaceva paragonare a quella, storica, dei Grateful Dead, si è costantemente modificata al variare di persone e luoghi, prima New York, poi Parigi, Londra, Berlino, poi di nuovo New York e Brooklyn, animata da un ristretto numero di fedelissimi e tanti, tantissimi compagni di strada.

Nan, Goldin, «Trixie on the cot, New York City», 1979
Nan non ama viaggiare da sola, e lo fa raramente. Per ogni sua mostra, conferenza o semplice visita di piacere mobilita sempre un gruppo consistente di persone tra amici, collaboratori, assistenti, e ha i modi, spesso assai complicati, dell’esperienza di gruppo. È un rituale consolidato che negli anni si è ripetuto un po’ dappertutto nel mondo. È una comunità mobile, una festa mobile, oggi certamente più disciplinata per pure ragioni anagrafiche, ma un tempo molto, molto disinvolta e divertente. Da un certo punto di vista anche una macchina perfetta, dato che, ancora oggi, è il palcoscenico essenziale per il suo lavoro d’artista, la sua cornice emozionale e, a ricaduta, anche la sua autosopravvivenza nel senso dell’economia. L’anima vera del suo lavoro, questa sorta di autobiografia in perenne evoluzione, onnivora, fa sì che nulla debba andare perduto, ma tutto documentato e filtrato creativamente. E in questo lei è maestra assoluta e inarrestabile in una continua, infinita rielaborazione dei materiali.
Ogni suo slideshow o video, ogni sua sequenza di immagini per una mostra o per un libro è frutto di un editing vertiginoso, che può durare senza interruzione settimane intere, senza limiti di orario, in un’assoluta ebbrezza del fare e disfare. Un caos solo apparente, perché alla fine quelle fotografie, spostate, eliminate, poi ancora spostate dovevano stare lì, proprio lì, senza dubbio alcuno. Da questo delirio inesorabile ho imparato molto, ho imparato come fare una mostra, un libro, come distinguere tra uno scatto buono e uno meno buono. Il tutto senza intellettualismi o ricette rigorose, ma semplicemente assecondando il suo flusso, come un bravo apprendista artigiano fa con il suo maestro. Penso che questa sua continua messa in discussione di tutto, questa sua distanza dal dogma, quasi una latente insicurezza, abbia garantito a Nan la possibilità di essere letta e condivisa da tutti, sotto ogni latitudine e cultura.
C’è qualcosa di profondamente fragile e umano in tutto ciò che ci racconta, anche negli aspetti più dolorosi e controversi della sua biografia. Se dovessi trovare un termine, capace di definirla come artista e come persona, utilizzerei senza alcun dubbio «condivisione». Condivisione come programma esistenziale e politico, come sua modalità dell’essere. Condividere significa essere sinceri, leali e, oggi sempre di più, non conformisti. La sua battaglia, vinta, contro i Sackler, è nata proprio su queste basi e da queste basi ha tratto linfa e consenso. Ricordo molto bene le prime riunioni di «P.a.i.n.», il gruppo che avrebbe poi scoperchiato di lì a poco l’orrore della dipendenza da ossicodone: c’erano Nan, un paio di vecchie amiche eccentriche, tre signori di una certa età e un gruppetto di adolescenti o poco più. Senza quello spirito, senza quell’energia, senza condivisione, non sarebbe successo nulla. Chi, specie negli ultimi tempi, definisce Nan Goldin artista e attivista, appellativo quest’ultimo così abusato al punto da suonare grottesco, dovrebbe ricordare invece le sue radici più profonde e rendere innanzitutto onore alla sua arte, nata dalla vita e per la vita. Nan è attiva per natura e per indole: se così non fosse non avremmo nulla di lei, nemmeno uno scatto. I miei debiti nei suoi confronti sono enormi, penso anche i suoi verso di me. Ne abbiamo passate di tutti i colori e qui mi fermo. Restano tante fotografie e un’amicizia grande, nata in quei giorni lontani a piazza del Gesù, Napoli.
In attesa del grande catalogo che documenterà l’intera produzione fotografica di Nan, dal 2023 è in tour in Europa «This Will Not End Well», una magnifica retrospettiva, pressoché completa, dei suoi lavori in diapositiva e video, curata da Fredrik Liew e organizzata dal Moderna Museet di Stoccolma in collaborazione con Pirelli HangarBicocca, lo Stedelijk Museum di Amsterdam, la Neue Nationalgalerie di Berlino e Réunion des musées nationaux-Grand Palais di Parigi. Il 9 ottobre, l’esposizione inaugurerà a Milano, all’HangarBicocca, a cura di Roberta Tenconi con Lucia Aspesi, nei padiglioni appositamente progettati dall’architetta Hala Wardé.