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Owen Hatherley
Leggi i suoi articoliNella Biennale di Aravena l’architetto non è più un demiurgo ma una guida che educa al «fai da te»
«Reporting from the Front» titola la copertina della brochure promozionale della 15. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, organizzata dall’architetto cileno Alejandro Aravena (1967) e sponsorizzata da Rolex, che si svolge dal 28 maggio al 27 novembre tra i Giardini, l’Arsenale e varie sedi nel centro storico di Venezia. Si tratta evidentemente di uno slogan, ma potrebbe rivelare qualche indizio sulle caratteristiche di questa Biennale.
Negli ultimi dieci anni Aravena è diventato il simbolo di una forma apparentemente nuova di architettura sociale. Una serie di progetti di edilizia messi a punto dall’architetto e dal suo studio, Elemental (in particolare quelli di Quinta Monroy e Villa Verde in Cile e Monterrey in Messico), sono stati ampiamente fotografati e descritti come non era mai stato fatto con quelli più standardizzati e banali che si costruiscono abitualmente in Venezuela, Brasile e Bolivia. Ciò si deve in gran parte al modo in cui Elemental sembra aver avvicinato due impulsi apparentemente contraddittori, proponendo una terza via tra la noiosa dicotomia «dall’alto verso il basso» versus «dal basso verso l’alto».
Questa tendenza trae inoltre spunto dal fascino per le case «fai da te» molto comune nel Sud del mondo: il vincitore del «Best Project» alla Biennale del 2012 fu un edificio a uso ufficio di Caracas, progettato dagli architetti Urban Think Tank e completato dagli squatter che vivevano all’interno del palazzo. Viene così riconosciuta la sensazione largamente diffusa che oggi gli architetti creino eleganti soluzioni per regimi repressivi piuttosto che sporcarsi le mani nel tentativo di risolvere la crisi globale di alloggi. Ed è proprio quello che Elemental intende fare: nei loro progetti cileni e messicani gli architetti essenzialmente hanno fornito una cornice, un modulo, connesso a un’infrastruttura sanitaria, a livello della strada, che poi è stato «riempito» dai residenti, che devono costruire da soli metà della loro casa.
È un progetto che si può interpretare in modi diversi: come mezzo per mantenere bassi i costi edilizi o per consentire ai residenti di ampliare e trasformare le loro case qualora ve ne sia l’esigenza, o come un tentativo estetico di unire l’ordine del Modernismo al colore caotico ma vibrante di una favela. L’architetto non è più un demiurgo ma una persona che aiuta gli abitanti del posto a sviluppare la loro creatività, dando loro un guscio funzionale al cui interno essi possono esprimersi.
Questa idea è riproducibile: a inizio aprile, Elemental ha infatti reso pubblici i suoi progetti e le tecniche impiegate. Non tutti condividono questo approccio; è il caso di Patrik Schumacher, socio di Zaha Hadid Architects, che ha descritto il trionfo di Aravena come «il prevalere del pc sull’architettura». Aravena, abile diplomatico, non ha risposto a queste provocazioni. Il suo approccio può essere considerato come autolibertario o neoliberale (a seconda dei gusti), pur non essendosi mai espresso a proposito. Quello che lo differenzia da architetti come Schumacher, oltre all’aspetto formale, è il tipo di relazione con il mondo circostante.
Secondo Schumacher, per un architetto il punto è «esprimere» le possibilità di quella che viene definita, in maniera troppo rigorosa, «società postfordista». Aravena invece vuole risolvere i problemi originati dal fordismo. Il suo annuncio programmatico per la Biennale comprende le parole «segregazione, disuguaglianze, periferie, accesso alla sanità, disastri naturali, carenza di alloggi, migrazione, informalità, crimine, traffico, spreco, inquinamento e partecipazione delle comunità», come «punti chiave» per tutti gli architetti. Per rimanere diplomatici, Aravena promette una sintesi che consentirà di evitare le tendenze naturali del capitalismo all’«avidità e all’impazienza», o la preferenza della burocrazia di Stato per «il conservatorismo e la risolutezza».
Ci saranno invece proposte di casa o, visto il lavoro che ha reso famoso Aravena, case costruite a metà, che daranno agli architetti l’occasione di trascendere le divisioni, aiutare, offrire expertise. La domanda è se questa ambizione potrà adattarsi all’estetica della povertà, dove i designer possono ammirare l’anima dei bassifondi e sentire che stanno dando il loro piccolo contributo.