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Padiglione Italia, Fosbury Architecture, «Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri». Foto Fabio Oggero

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Padiglione Italia, Fosbury Architecture, «Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri». Foto Fabio Oggero

Largo ai «nativi sostenibili», ma non lasciamo l’architettura fuori dalla porta

Padiglione Italia: età media 33 anni, i giovani sono finalmente in prima linea. Ma poca fisicità concreta, progettazione lontana dall’architettura: in attesa (e speranza) di risultati convincenti

Laura Milan

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Dov’è il «laboratorio del futuro» italiano? Sicuramente nel collettivo Fosbury Architecture e nei giovani architetti, nel loro lavoro per la costruzione di nuovi modi di svolgere e interpretare una professione in crisi che deve trovare rifondazione e nuovi significati. Lo è un po’ meno, invece, in un Padiglione Italia che lascia gli interventi fuori dalla porta.

I giovani sono finalmente in prima linea: il contesto in cui tutti i «nativi sostenibili», così si definiscono i curatori, si trovano a operare li porta a modificare sul campo una professione che per l’architettura costruisce un futuro fatto di nuove strade e connessioni che richiedono reti transdisciplinari, competenze sempre più fluide e multidisciplinari e un nuovo modo di tessere relazioni. Un innegabile pregio del Padiglione è avere riconosciuto il cambio di passo in corso, coinvolgendo circa cinquanta persone con età media di 33 anni.

Ma essere giovani per una Biennale non basta. Citando Aldous Huxley e il suo Mondo nuovo, «Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri», questo il titolo del Padiglione Italia, porta a Venezia nove interventi site specific che da nord a sud stanno lavorando in modi e tempi diversi su altrettante aree in condizioni di fragilità. Vogliono essere l’inizio di un’«agenda incompleta di temi di ricerca per il contesto nazionale e per l’architettura». Insieme costruiscono un grande lavoro corale che guarda ai territori, affidato a progettisti quasi tutti al di fuori di circuiti consolidati, eccezione fatta per collettivo orizzontale (che in questa edizione espone alle Corderie nella mostra principale), Parasite 2.0 e Studio Ossidiana (parte nel 2021 di «How will we live together?» di Hashim Sarkis).

Il Padiglione Italia supporta pregevolmente l’innesco delle azioni di riqualificazione con parte dei fondi a disposizione (1,19 milioni di euro di cui 800mila dal Ministero della Cultura). Tra Friuli Venezia Giulia e Sicilia, passando per Toscana e Sardegna, Puglia e Abruzzo, Calabria, Campania e Veneto, tutti i progetti in corso introducono interventi eterogenei in cui il manufatto costruito non è più un fine ultimo, ma uno strumento, tra i tanti possibili, «per intervenire su quel tessuto di relazioni tra persone e luoghi che è alla base di ogni progetto». Anche la nozione di spazio si modifica, diventando «luogo fisico e simbolico, area geografica e dimensione astratta, sistema di riferimenti conosciuti e territorio di possibilità».

I temi sono difficili e sfidanti, le scale piccole, ma molto differenti, i processi attivati comportano la messa in campo di azioni materiali e immateriali, intervenendo sulle relazioni, tra gli attori coinvolti e il territorio. Supportati da incubatori tra cui MaXXI, Fai e Centro Pecci, e advisor provenienti da diversi campi delle industrie creative, disegnano un laboratorio fatto di indagini sui rapporti tra le modifiche delle filiere alimentari e i territori (Cabras), riattivazioni con installazioni sonore e luminose di spazi sotterranei dismessi (Trieste), trasformazioni temporanee di tetti in spazi urbani (Taranto), pareti di chiese che diventano palestre di arrampicata (Marghera, Venezia), dispositivi spaziali per nuove forme di aggregazione all’aperto (Ieranto), interventi di recupero sociale e comunitario attraverso la creazione di leggeri spazi temporanei (Librino), più ampi e consolidati progetti di riattivazione culturale e territoriale (Belmonte Calabro), belvedere digitali per mappare paesaggi e i loro valori (Prato) e avvicinamenti a edifici incompiuti e abbandonati per avviare processi di significazione (Ripa Teatina).

Per alcuni sono poco significativi e troppo deboli e lontani dall’architettura, per altri, compresa chi scrive, è necessario invece sospendere il giudizio in attesa di convincenti risultati. C’è un cambiamento in atto e, non sostituendo la lente da cui si osserva, si rischia un errore di prospettiva. Il progetto ha infatti un programma che si compone di tre fasi, due concluse e una da avviare: l’attivazione e l’esposizione dei processi innescati e la creazione di un archivio-piattaforma permanente per «documentare attività locali». Questa fase sarà cruciale nel dare conto di risultati e impatti che renderanno i progetti fallimenti o la vera «accademia diffusa sul territorio nazionale» di auspicabili pratiche pilota, vitali e riproducibili.

La debolezza di un padiglione che invece scommette, vincendo, sulla rarefazione e sullo svuotamento del grande spazio delle Tese delle Vergini è la comunicazione. Il visitatore è accolto, piacevolmente, da una prima manica buia e completamente vuota, dominata da un enorme schermo. I nove interventi sono collocati nella seconda, dove disegnano una geografia di stazioni attorno a cui è possibile muoversi. In uno spazio suggestivo, è tuttavia difficile avere reale contezza dei progetti, affidati a video, suoni, coni di sale, sculture in terracotta, tende e tappeti, installazioni sonore, amuleti sospesi, macerie, vasi di terra, sistemi di irrigazione e interattività digitale, da un allestimento che punta su evocazione e astrazione.

Nei testi si sente la mancanza di dati e informazioni che aiuterebbero a restituire la fisicità di azioni sui territori concrete prima che astratte: sarebbe stato utile, ad esempio, conoscere la quota dei fondi destinata ad ognuno o il numero di persone e comunità coinvolte, i primi risultati ottenuti, eventuali superfici impegnate in quali parti dei territori. Si sente anche la mancanza di fotografie e disegni, schemi, modelli, ove possibili. La vera comprensione dei progetti è difficile e la lacuna è ancora più importante considerando la risonanza del palcoscenico che nei prossimi 6 mesi sarà aperto a un pubblico interazionale ed eterogeneo (nel 2021 i visitatori sono stati quasi 300mila).

I processi e i progetti cambiano, le richieste che territori e comunità rivolgono anche agli architetti sono sempre più chiare e forti ed è un bene che la Biennale ne parli. Devono cambiare le risposte e le modalità, date da un’architettura il cui rinnovamento non può che essere affidato ai giovani, oggi giustamente al centro dell’attenzione. La strada è corretta ma siamo convinti che l’evoluzione non possa lasciare la disciplina fuori dalla porta, abbandonandone del tutto codici, linguaggi e strumenti. Il rischio è che il cambiamento diventi una deposizione delle armi.

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Laura Milan, 14 giugno 2023 | © Riproduzione riservata

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