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«City of God» (2017-20) di Alessandro Pessoli. Cortesia dell’artista. © Rolando Paolo Guerzoni

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«City of God» (2017-20) di Alessandro Pessoli. Cortesia dell’artista. © Rolando Paolo Guerzoni

Le danze macabre di Alessandro Pessoli e Nicola Samorì

Riflessioni su due artisti presenti alla mostra «Pittura italiana oggi», appena conclusasi alla Triennale di Milano

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Luca Bertolo

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INTRO
«Quando il commerciante di diamanti Salomon Rossbach saltò giù dall’Empire State Building, lasciò un misterioso messaggio: “Non c’è più un sopra, non c’è più un sotto, allora mi butto”», Gottfried Benn, Invecchiare come problema per artisti (Adelphi, 2021).

La sera di Capodanno del 2004 mi trovavo a Vienna a casa di amici. Ci fu la proposta di esprimere ognuno un proposito per il futuro. Quando fu il mio turno dissi: pensare di più alla morte. Quest’episodio mi è tornato in mente quando ho vagheggiato per la prima volta di scrivere questo testo, ormai quasi tre anni fa. Poi, rivedendo uno dietro l'altro i quadri che Samorì e Pessoli avevano esposto alla mostra Pittura italiana oggi, è riaffiorato un ricordo ancora più indietro nel tempo. Nel 1992, poco dopo essere uscito dall’ospedale, decisi di imprimere una svolta alla mia vita: lasciai Milano, la mia famiglia, una fidanzata, un gruppo politicamente impegnato e una tesi di laurea già avviata. Volevo fare il pittore, niente meno, e l’idea di saltare su un treno senza una meta precisa mi era parsa di buon auspicio. Avevo le idee un po’ confuse sull’arte contemporanea. Approdai a Londra. Di sera, nella mia stanza a Camden Town, scrivevo lettere zeppe di citazioni di Oscar Wilde. Tra i miei corrispondenti, quello che consideravo più autorevole era Ezio, che con i suoi trent’anni e il dottorato in filosofia mi pareva appartenere allo stesso rango celeste di Theodor Adorno. Si rivolgeva a me con bonario tono paterno. In una lettera, probabilmente rispondendo a una mia ennesima incontinenza estetizzante, mi diceva che ogni autore importante si era confrontato con la prospettiva della morte. La morte, insisteva Ezio, è l’unico pensiero davvero importante per artisti poeti e filosofi degni di questo nome. Tutto il resto, questa la conclusione, erano fronzoli. Ero giovane e archiviai quelle parole come un rimbrotto eccessivamente macabro.

RONDÒ
Bologna, 2021. In una radiosa giornata di maggio varco la soglia di Palazzo Vizzani e salgo lo scalone che porta al primo piano. Sto per entrare alla mostra «City of God» di Alessandro Pessoli (7 maggio-23 settembre 2021), il mio pittore italiano preferito. Una settimana prima mi ero trovato ai piedi dello scalone di un altro palazzo bolognese, Palazzo Fava, dove era in corso una grande mostra di Nicola Samorì, «Sfregi» (8 aprile-25 luglio). Mentre salivo le scale si mescolavano in me un po’ di sospetto e una grande curiosità. Sia come sia, quelle due mostre si sono ben presto sistemate nella mia coscienza come un unico evento. Non era solo questione di due notevoli pittori italiani, anzi romagnoli, come pensai già allora vergognandomi subito di questa annotazione folkloristica; il punto di contatto era l’impressione che le opere di entrambi gli artisti rivelassero un confronto serrato con la morte. Qui o là, anche se in modi molto diversi, a palazzo quadri e sculture stavano danzando una danza macabra.


REQUIEM
Per quale ragione ero sospettoso salendo le scale di Palazzo Fava? Credo riguardasse il fatto che la pittura di Samorì appare troppo bella e troppo ricalcata sull’antico, due peccati mortali per noi (non del tutto post) moderni. In ogni caso l’impressione è stata forte. I suoi quadri, così tanti, così scuri, così grandi, così sfacciatamente raffinati, mi hanno ricordato le voci di un coro che intonasse un requiem dalle profondità di un abisso. La superficie di molti dipinti è rimossa, bucata, abrasa, incisa, spellata. Invitato a confondere materia pittorica e figura rappresentata (spesso un corpo seminudo), soffriamo davanti a quel truce spettacolo. Non vi è rappresentata violenza, truce è l’informe che violentemente si mostra allo sguardo.  A che cosa mira questo dispositivo visivo utilizzato così spesso dall’artista? Distolgo l’attenzione dalle cupe atmosfere di quel Seicento controriformistico, con cui amoreggiano voluttuosamente i lavori di Samorì, e mi volgo a oriente, dove nei millenni si sono accumulati i testi sacri che interpretano questo mondo come impermanente e illusorio. Māyā è illusione e il suo velo nasconde un genere di realtà più reale. Sto semplificando molto, perdonate. Ora, tornando a Samorì, sotto la pelle dei suoi quadri non troviamo altro che tela o pietra o impasto. Dovremmo dunque concludere che la verità, svelata, coincida con la mera inquietante materia? Il materialismo può essere tremendo, come quando quel medico russo disse di aver sezionato centinaia di cadaveri senza aver mai trovato una sola anima.

FALSO MADRIGALE (allegro vivace) 
Il mondo di Pessoli assomiglia a un luna park, gioioso quando animato da folle di ragazzi, malinconico e spettrale dopo l’orario di chiusura. Nel 1901, all’esposizione internazionale di Buffalo, venne presentata un’attrazione chiamata «A trip to the moon», ispirata al libro di Jules Verne Dalla terra alla luna (1865). Si trattava di una finta navicella spaziale che fu battezzata Luna (invece che Moon). Questa attrazione fu successivamente trasferita in un parco divertimenti a Coney Island, inaugurato nel 1903, che ne prese il nome: Luna Park. I quadri e le sculture-installazioni di Pessoli mi ricordano spesso le giostre, i «calcinculo», le case delle paure. Attrazioni verniciate a spray con colori sgargianti, organizzati in accordi armoniosi, in certi casi spinti fino al kitsch, sovente intervallati da scabrose dissonanze. La postura è comunque baldanzosa, che si tratti di un povero cristo in croce, di un arlecchino in pigiama o di una testa fiorita. Spesso nelle sue opere spira una brezza romantica, popolaresca. C’è qualcosa di extraterrestre, non già di surreale, nelle composizioni di Pessoli, qualcosa di lunare nella sua personalissima declinazione del pop. Pianeta complementare del sole, in astrologia la luna rappresenta la notte il femminile l’inconscio l’infanzia e la memoria. Va bene, si dirà, ma quei colori sparati, i colori di Pessoli, cosa ci pigliano col chiaro di luna? Ecco la risposta che mi do: sono una copertura.


ADAGIO
Nelle Danze macabre e nei Trionfi della morte tardomedievali esseri umani e scheletri interagiscono con naturalezza in uno stesso spazio-tempo. Tanto pareva allora interconnessa la morte alla vita, incomprensibili l’una senza l’altra. Nei quadri e nelle sculture bolognesi di Pessoli e Samorì non comparivano scheletri o tristi mietitori; se è per questo nemmeno droni od ospedali bombardati. Eppure ho avuto la netta sensazione che entrambi gli artisti stessero facendo i conti, ognuno a modo suo, con l’idea della morte; più precisamente, con l’idea di mortalità: in quanto processo (degradazione) e in quanto orizzonte di senso (transitorietà).

DUETTO
Susan Carey, psicologa evolutiva di Harvard, e sua figlia Eliza, di tre anni e mezzo. Eliza parla del suo orsacchiotto e dice che vivrà per sempre.
Susan: Perché è vivo?
Eliza: No, è morto! Come fa a essere vivo?
S.: È vivo o morto?
E.: È morto.
S.: Prima era vivo?
E.: No, è a metà tra vivo e morto. Ogni tanto si muove. […] Come fanno i morti ad andare al bagno?
S.: Cosa?
E.: Forse sottoterra ci sono dei bagni.
S.: I morti non hanno bisogno di andare al bagno. Non fanno nulla di nulla, se ne stanno lì. Non mangiano, non bevono, non hanno bisogno di andare al bagno.
E.: Ma prima di morire hanno mangiato e bevuto. Poi muoiono ma devono ancora andare al bagno.
Da Il gioco del linguaggio di Morten H. Christiansen e Nick Chater (Ponte alle Grazie, 2023).

ADAGIO LARGO
Dopo migliaia di anni di matrimonio e un lento processo di separazione, sembra che arte e religione abbiano divorziato definitivamente centocinquant’anni fa. Alle spalle si sono lasciate una terra desolata, uno strano posto (si veda Lo strano posto della religione nell’arte contemporanea, di James Elkins, Johan & Levi, 2022) in cui pochi artisti contemporanei osano avventurarsi.
Negli anni, i titoli delle mostre di Pessoli sono diventati più espliciti: «Testa cristiana» (ai Chiostri di Sant’Eustorgio a Milano dal 15 settembre al 20 novembre 2021), «The City of God» (a Palazzo Vizzani a Bologna dal 7 maggio al 23 settembre 2021). Non voglio generalizzare, né forzare la mano sul parallelismo tra i due artisti: i Gesù di Pessoli, per fare un esempio, così simili al nostro vicino di casa, hanno molto di profano. Al contrario, disumana e sacrificale è la catastrofe cui vanno incontro per compiersi i dipinti di Samorì. Un sacro che parrebbe aver poco a che vedere con la religione in senso stretto e molto con la categoria di informe, per come la definiscono Rosalind Krauss e Yve-Alain Bois riprendendo Bataille: l’assolutamente altro, l’inavvicinabile, ciò che desublima e sottrae all'arte ogni illusione circa la sua funzione catartica.

4’33’’
Mentre mi aggiravo tra le opere della mostra di Pessoli, una piccola scritta a matita sul lato di una testa in gesso ha attirato la mia attenzione: «14.11.1963». Altrove, questa volta a caratteri più grandi campeggiava «1963 AP». Non avrei mai pensato che una data di nascita (ammesso che lo sia) mi avrebbe turbato tanto… come una parentesi lasciata aperta - Prende freddo! - diceva la mia maestra delle elementari. La nascita, l'inizio: Aprile è il mese più crudele, spiegava Roberto Sanesi nelle sue belle lezioni dedicate a T.S.Eliot, perché ogni inizio porta già con sé l’idea di una fine. E noi, mortali, come reagiamo all'idea della nostra fine? Tendenzialmente evitando di pensarci: andiamo allo stadio, accumuliamo denaro, amoreggiamo, litighiamo, ci spariamo addosso, danziamo. Quando invece affrontiamo l’unico dato certo del nostro incerto futuro, ci ritroviamo dannatamente soli. E forse, come Samorì ha condensato in una bella frase,  «niente sostiene la solitudine come un dipinto». In questo caso l’arte servirebbe a qualcosa, a dilatare l’attesa.


STAYIN’ ALIVE
Ma insomma che cosa significa, in arte, confrontarsi con la morte (l’essere mortali)? Si è già detto che non significa necessariamente rappresentarla. Tra le possibili ipotesi ne cito due. Morire è tornare ad essere mera materia, attraverso un processo di degradazione dei corpi e di caduta delle illusioni (NB: l’ottica in pittura è sempre metafora dell’ontologia). È la strada che percorre Samorì. In molte opere, tuttavia, il suo talento tecnico ci abbaglia, lasciando in ombra un paradosso: quei corpi, sezionati con freddezza chirurgica, sono morti molto prima di entrare in sala operatoria, circa quattrocento anni fa. La seconda ipotesi è considerare la mortalità come sfondo (futuro, destino) che dà senso a ciò che sta in primo piano (presente, vita). Qui ci si scontra con un altro paradosso, ben più generale: ogni cosa potrebbe legittimamente stare in primo piano (compreso un vaso di fiori) e niente fare da sfondo. La faccenda non è risolvibile sul piano della pura visibilità, poiché tale dipende dall’interpretazione dell’osservatore, dalla sua sensibilità, dalla sua disponibilità. È la strada che percorre Pessoli. È la strada che percorre Goya quando dipinge dei tranci di salmone, De Staël quando dipinge i suoi ultimi quadri, Munch ed Ensor quando dipingono qualsiasi cosa. A questo punto vorrei concludere con un’immagine, quella del memoriale dedicato a Mike Kelley, sorto spontaneamente subito dopo la notizia della sua morte, nel 2012, in un anonimo angolo abbandonato vicino al suo studio di Los Angeles. Non c’è niente di cupo o triste in quella massa coloratissima di teddy bears, coperte etniche e chincaglierie di plastica lasciate lì da amici e ammiratori. Immagino, che ogni giorno, col favore delle tenebre, quei peluche si alzino e si mettano a ballare. 

 

Luca Bertolo, 20 febbraio 2024 | © Riproduzione riservata

Le danze macabre di Alessandro Pessoli e Nicola Samorì | Luca Bertolo

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