Difficile non comprendere lo stupore di Alfredo Jaar di fronte alla chiamata che gli comunicava di aver vinto l’Hasselblad Award 2020, uno dei più prestigiosi riconoscimenti in ambito fotografico. «Ho subito pensato che fosse un errore. Io non sono un fotografo». I suoi predecessori hanno infatti affrontato questo linguaggio con un approccio tendenzialmente convenzionale.
L’atteggiamento che l’architetto e artista cileno ha nei confronti delle fotografie è invece del tutto differente. I suoi progetti si soffermano di volta in volta su un numero ridottissimo di scatti, spesso nemmeno realizzati di lui, detonandone il potenziale comunicativo ed emotivo, in un’intensa riflessione attorno al tema della presenza della guerra e delle sofferenze umane nei media occidentali.
Lo si nota particolarmente nelle quattro fondamentali opere esposte nella mostra «Sussurri e grida», fino al 23 gennaio, presso l’Hasselblad Center al Gothenburg Art Museum. Nell’imponente installazione «Shadows» del 2014, ad esempio, alcune immagini realizzate dal reporter Koen Wessing durante la rivoluzione in Nicaragua assumono una forza espressiva nuova attraverso un meccanismo di apparizione e dissoluzione.
Nelle opere «Untitled (Newsweek)» del 1994 e «Searching for Africa in LIFE» del 1996, invece sono l’indifferenza e gli stereotipi perpetrati dal sistema di informazione ad essere indagati. La prima in merito al genocidio in Ruanda, i secondi riferiti all’immagine che la nota rivista americana diffonde del continente africano.
È però l’opera «You Do Not Take a Photograph, You Make It» del 2013, a riassumere, in un poster su cui è scritta questa frase, l’idea stessa di fotografia di Jaar: le immagini che vediamo non sono oggettive, sono l’emanazione tangibile dello sguardo di chi le crea e, oggi più che mai, di chi le diffonde.