Maria Grazia Bernardini
Leggi i suoi articoliCertamente originale e di ampio respiro la monografia che Tomaso Montanari dedica a Giovan Lorenzo Bernini, dal titolo La libertà di Bernini, riprendendo l’intestazione della serie di otto lezioni andate in onda su Rai5.
Una monografia inusuale in quanto non si sofferma sulla storia e sull’analisi della vita e delle opere del grande artista, ma analizza con incomparabile acribia i documenti e le biografie, esplorando l’animo dell’artista e portando allo scoperto le sue ansie, i conflitti, le paure, le amarezze. Attingendo alle due biografie redatte da Baldinucci nel 1682 e dal figlio Domenico Bernini nel 1713, ma anche a quella embrionale dell’altro figlio, Pier Filippo Bernini, all’elogio funebre di Pierre Cureau de la Chambre, alle considerazioni di Bernini stesso riportate nel famoso diario di viaggio di Chantelou, e ad altri numerosi avvisi e documenti di allora, Montanari ci rivela un Bernini inedito, un artista in eterno conflitto con i suoi grandi mecenati, combattuto tra l’ossequio al potere e il rispetto delle regole e l’insita necessità di seguire la propria idea a costo però del fallimento.
L’autore inizia la sua analisi dal rapporto con Urbano VIII, il pontefice che, novello Giulio II, spronò lo scultore Bernini a diventare l’artista universale al pari di Michelangelo, scultore ma anche architetto e pittore, e rivela come il legame tra le due personalità non fosse così idilliaco come si è sempre considerato. Proprio nel suo incontrovertibile capolavoro, l’«Apollo e Dafne» della Galleria Borghese, Bernini avrebbe superato i limiti del decoro, in quella ninfa così sensuale, viva e naturale, e il cardinale Barberini (futuro Urbano VIII) elaborò un distico, iscritto poi sulla base del gruppo scultoreo, che trasformò la scultura da profana a moraleggiante. In questo modo, Bernini si salvò dall’abiura che invece colpì poco dopo sia Galileo che Marino, ma pagò un prezzo molto alto alla sua libertà. Non realizzerà più opere così pagane e così fortemente erotiche, ma solo opere di carattere sacro al servizio del papa e della Chiesa. E sotto Urbano VIII l’artista registrò altri momenti drammatici: quando non riuscì a realizzare l’incarico di dipingere la volta della Loggia delle Benedizioni a San Pietro, e quando non incontrò il favore del pontefice sul campanile di San Pietro. Urbano VIII aveva affidato a Bernini l’incarico di completare la facciata di San Pietro con l’innalzamento dei campanili laterali. Nel 1641 Urbano VIII vide il campanile, ormai costruito per due terzi, ma l’opera fu giudicata «così severamente da indurre il papa a non dare il via libera alla guglia» poiché aveva ideato una guglia «fuori dalle regole», cioè aveva infranto le regole dello stile. E ciò che era stato realizzato del terzo livello fu abbattuto. Il vero smacco per Bernini fu questa decisione di Urbano VIII piuttosto che la successiva imposizione di Innocenzo X di abbattere tutto il campanile, perché in questo caso la motivazione era del tutto formale. Dunque Bernini, che doveva assurgere ad artista universale, pittore scultore e architetto, osservava il proprio fallimento come architetto e come pittore e Montanari annota: «Bernini dunque si ritrovava a contare solo sul suo solido primato di scultore, ma quella strada gli era stata sbarrata dall’abiura imposta dallo stesso Maffeo dopo l’Apollo e Dafne».
La necessità di rispettare le regole e la paura di essere tacciato di eretico, di eterodosso, di non rientrare nei limiti del decoro, lo tormenterà a lungo, d’altronde, quando deciderà di seguire la propria idea, come nella Statua equestre del «Re Luigi XIV», scegliendo di raffigurarlo sorridente al colmo della sua gloria, la sua arte fallì. Un sovrano che ride era considerato un oltraggio inaccettabile e per questo la scultura, arrivata a Parigi nel 1685, non fu apprezzata, fu rilavorata e sistemata a Versailles. Proprio a seguito delle difficoltà che si susseguirono negli ultimi anni e dell’atmosfera di ostilità che si era creata intorno a lui, si avviarono la stesura della biografia dell’artista (Baldinucci), che si rivelò pertanto piuttosto un’apologia che una biografia vera e propria.
Montanari tocca tanti altri punti dei rapporti dell’artista con i committenti e con gli altri artisti, con Borromini, con Caravaggio, con Rubens, analizza a lungo la biografia di Baldinucci, si sofferma sulla bottega del Bernini quale luogo di incontro di idee e soprattutto luogo in cui l’artista illustrava la sua visione estetica, quindi nell’insieme offre un panorama molto vasto dell’attività e del pensiero di Bernini, ma a volte le sue tesi appaiono forzate, seguono una loro logica non sempre supportata dal confronto dalle opere e dal successo che ebbero.
Montanari, ad esempio, inizia il suo discorso prendendo spunto da una frase che Giuliano Briganti annotò nel suo famoso libro su Pietro da Cortona del 1962, in cui considerava Bernini conservatore nei confronti dell’innovatore Caravaggio. Mi domando: e tutta la vasta, quasi smisurata bibliografia che è passata tra quel lontano 1962 e l’odierno 2016, in cui tanti studiosi hanno riscoperto la genialità e la modernità dell’artista? E comunque, non è convincente il confronto tra Caravaggio e Bernini. Il «Costantino a cavallo» che orna la base della Scala Regia non è paragonabile alla «Conversione di san Paolo» di Caravaggio: qui la definizione di Bellori, «historia senza atione» è calzante al massimo, il cavallo e lo stalliere sono immobili, quasi astratti dall’evento che sta avvenendo, san Paolo è a terra, ha solo le braccia alzate a ricevere quel sottile e quasi inavvertibile raggio che scende dall’alto e colpisce il suo cuore. Qui l’azione è solo interna. Nel Costantino l’azione è esterna: il cavallo si imbizzarrisce, colpito dalla luce e dalla visione e il drappo sulla parete contribuisce a creare una sensazione di moto. E ancora: non sono condivisibili né il raffronto tra la figura della Giustizia del «Monumento funebre di Urbano VIII» e un dipinto di Rubens (ma piuttosto con la «Maddalena penitente» di Guido Reni, che aveva dipinto proprio per i Barberini), né l’attribuzione a Bernini della tela raffigurante «Cristo penitente» di collezione privata. Lo stesso Montanari ricorda che Bernini in pittura realizzò solo teste, autoritratti o ritratti, a volte solo sbozzati ed è quindi impossibile supportare questa attribuzione con confronti stilistici. Ricordo l’incontro che ebbi con Maurizio Fagiolo dell’Arco e Claudio Strinati in occasione della mostra dedicata a Bernini nel 1999 a Palazzo Venezia. Prendemmo atto che non avevamo argomentazioni valide per una corretta attribuzione e per questo non inserimmo il dipinto in mostra.
Per tornare al rapporto tra Urbano VIII e Bernini, e al gruppo dell’«Apollo e Dafne», va precisato che Montanari cita una visita che tre eminenti personaggi, il cardinale Scipione Borghese, il cardinale Maffeo Barberini e il cardinale François d’Escoubleau de Sourdis fecero alla bottega di Bernini, in un giorno della tarda primavera del 1622, durante la quale il cardinale de Sourdis avrebbe espresso le proprie perplessità davanti all’erotica sensualità di Dafne. A quella data però il blocco di marmo destinato al gruppo dell’«Apollo e Dafne» era solo sbozzato, tanto è vero che lo stesso Montanari pensa che i tre personaggi abbiano potuto vedere solo i disegni e i bozzetti. In quel momento nella bottega di Bernini c’era il grande gruppo di «Plutone e Proserpina». Come mai il cardinale de Sourdis non si è fatto impressionare piuttosto dalla sensualissima Proserpina, nella cui carne affonda la mano di Plutone?
E ancora: Urbano VIII avrebbe tarpato le ali a Bernini con il distico moraleggiante? Ma l’aspetto più affascinante e straordinario del gruppo dell’«Apollo e Dafne» non è tanto la sensualità di Dafne, che certo non va negata e che ha spinto Maffeo Barberini a scrivere il distico, ma è il movimento, la capacità di superare i limiti del marmo in quel salto in alto, nella raffigurazione della trasformazione di Dafne in alloro, in quella capacità della resa naturalistica, che accompagnerà le opere successive, arrivando a vette insuperabili. Anche l’ipotesi che Bernini non realizzò la figura del Tempo nel gruppo scultoreo della «Verità», così come era stato previsto nel disegno, non è tanto perché avrebbe superato i limiti del decoro (una figura di vecchio che scopre la sensuale nudità della figura della Verità), quanto il fatto che, quando tornò a completare il gruppo, nel 1652, non aveva più necessità di scolpire il Tempo: il tempo era passato, Bernini aveva trionfato con la «Fontana dei Fiumi», con la Cappella della santa Teresa e con il «Busto di Francesco I d’Este», e la «Verità» ormai era stata svelata e risplendeva.
La libertà di Bernini. La sovranità
dell’artista e le regole del potere
di Tomaso Montanari
326 pp., ill. col. e b/n
Einaudi, Torino 2016
€ 42,00
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