Leonardo Merlini
Leggi i suoi articoli«Il Teatro è essere terrorizzati e convincere la gente che sai cosa stai facendo. […] Il Teatro è fingere di sapere quello che stai facendo quando non hai nessuna certezza, e le cose che sai sembrano cambiare continuamente». Sono parole della scrittrice americana Dorothy Allison, tratte da un brillante tentativo di autobiografia, che oggi, nel giorno in cui il mondo della cultura e dello spettacolo ricorda David Lynch, a me sembrano perfette per descrivere sia quello che potrebbe avere pensato il regista, tormentato e complesso per come ce lo hanno descritto, nel momento in cui si esponeva al pubblico con le sue opere, sia ciò che poteva passare nella testa degli spettatori, durante e soprattutto dopo i tour de force emotivo-visivi dei suoi film. Tutto cambia continuamente, è un gioco che si modifica mentre ci stai giocando, le certezze possono essere solo posticce, frutto di qualche convinzione più speranzosa che salda. Una lezione di filosofia, quasi una morale pratica, che unita alla magnificenza delle immagini e al turbamento sottile che attraversa ogni inquadratura, potrebbe essere l’architrave di quell’universo lontano che, per convenzione, abbiamo deciso di chiamare il cinema di Lynch.
La storia del regista, che viene dalla provincia americana e che per tutta la vita ha finito per raccontarla, inizia con cortometraggi che uniscono animazione e live-action, ma il vero evento è il primo lungometraggio, «Eraserhead», storia incubesca su un uomo e i suoi deliri surreali. «Quasi un cult movie, scrive Pino Farinotti nel suo dizionario dei film, adeguatamente ripugnante». Ma è una ripugnanza che si appiccica allo spettatore, che non lo lascia, che diventa, ed è impossibile non pensare a certi racconti di Kafka, l’elemento fondante dell’esperienza e dell’opera. Il film sono i cavalli impazziti che trasportano il povero medico di campagna dello scrittore praghese attraverso una notte sconosciuta, e su quei cavalli corre anche David Lynch, che è bello immaginare con al vento la sua leggendaria pettinatura anche nel 1978, anno di uscita di «Eraserhead». Ed è inevitabile che questa galoppata surreale ci porti su tutte le «Strade perdute», del mondo e delle nostre coscienze, che sono un altro dei luoghi classici del cinema lynchano. Una striscia d’asfalto, dei fari che la illuminano solo in parte, mai abbastanza; le linee bianche che emergono come minacce dal terreno e una velocità che il nostro «Cuore selvaggio» non può diminuire. Non si può scendere da certi film, si può solo decidere di lasciarsi convincere a rischiare, ed è lì la loro forza, anche perché, dentro di noi lo sappiamo, dato che la vita che ce lo ha insegnato, comunque non si arriva da nessuna parte. Il traguardo non c’è, abbiamo solo l’occasione di andare, come se fosse una poesia di Louise Glück o un dramma di Samuel Beckett. Ma con un bicchiere di visioni ancora più inaspettate da bere in un sorso.
In fondo è come se lo stesso regista si mettesse i vestiti dello spettatore: non c’è onniscienza manifesta, non c’è il codice di decrittazione, e non ci sono perché non servono. La conquista dell’inutile, come ci ha insegnato Herzog, è la cosa in sé, il cinema è la cosa in sé, l’arte, in altre parole. Di questo parliamo anche oggi. E come ogni grande artista anche David Lynch ha saputo essere radicale e mainstream, ha portato certi incubi indie di fronte a milioni di spettatori, ha costruito una natura bifronte che è diventata parte della sua leggenda popolare, nel senso di diffusa, forse non di massa, ma certamente da celebrità. Premi, tappeti rossi, smoking, feste, lustrini. Nella storia di Lynch, ovviamente c’è anche questo, ci sono «The Elephant Man», «Velluto Blu», c’è la notorietà globale, i ritratti in copertina, il ciuffo, per l’appunto. E soprattutto, in questo spazio così straniante e comune, c’è «Twin Peaks». La serie che ha cambiato la televisione e, con il senno di poi appare indiscutibile, ha aperto la strada verso il mondo dominato da Netflix e dalle sue serie in cui viviamo oggi. Nonostante tutta l’attenzione e la morbosità mediatica, nessuno ha saputo rispondere alla leggendaria domanda: «Chi ha ucciso Laura Palmer?» e qui, proprio qui, in questa nebbia portata nel mainstream, che per sua natura invece ci ha sempre costretto ad arrivare a diradarla la nebbia, in questa opacità irresistibile Lynch ha vinto la sua duplice partita, o se volete il suo Grande Compromesso, e ha cambiato il format della tv, ma anche gli occhi di noi spettatori e con essi il grande mondo dell’entertainment planetario. «Film come “Strade perdute” e “Mulholland Drive”, ha scritto lo studioso di cinema Geoff King, sono anche pensati per intrattenere, precisamente grazie al loro livello di impenetrabilità e trasgressività rispetto alla logica convenzionale di narrativa lineare”. Bingo! L’impenetrabilità e diventata intrattenimento permeabile, ma senza perdere se stessa. Succedeva con Kafka, succedeva con David Lynch, cineasta ed equilibrista. I cavalli furiosi oggi più che mai è bello pensare che continuino a correre in qualche forma di aldilà insieme ai nostri pensieri sul regista. Ma forse l’immagine giusta per chiudere questo pezzo è quella di Alvin Straight, l’anziano e pacato protagonista di «Una storia vera» (The Straight Story, nell’originale, molto meglio) che attraversa l’America dei paesaggi sconfinati a bordo del suo tosaerba. In un mondo soffocato da conformismo e performance anche questa è una forma dell’essere radicali.