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Veduta dell’installazione «Ice Watch» in Place du Panthéon di Parigi (2015), di Olafur Eliasson e Minik Thorleif Rosing. © UNclimatechange

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Veduta dell’installazione «Ice Watch» in Place du Panthéon di Parigi (2015), di Olafur Eliasson e Minik Thorleif Rosing. © UNclimatechange

L’arte deve scendere nella polvere?

Una riflessione sul valore civile e militante dell’arte di Daniel Borselli

Olga Gambari

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«Che cosa vale di più, l’arte o la vita?» hanno gridato le giovani attiviste imbrattando di succo di pomodoro un quadro del Van Gogh National Museum di Londra nell’ottobre 2022.

Come la loro, tante altre azioni di protesta e denuncia hanno avuto luogo in musei e in relazione a celebri opere d’arte, suscitando un dibattito pubblico sul diritto di mettere a repentaglio la salute delle opere d’arte nel trasformarle in strumento mediatico virale di lotta e sensibilizzazione. Questa vicenda è il punto di partenza dell’interessante saggio di Daniel Borselli, che pone molte domande e riflessioni non scontate su una questione centrale: se l’arte è davvero parte della vita, allora deve scendere nella polvere e abbandonare la sua condizione sacra di intoccabilità neutrale e conservatrice quanto ipocrita.

Questo vale a 360 gradi, non contempla solo il fatto che gli artisti si debbano occupare di tematiche ambientali e del disastro dell’Antropocene, ma che il sistema arte trasformi i propri spazi istituzionali in agorà civili e le opere in materiale militante. Borselli cita lo scrittore Amitav Gosh, il quale pensa al futuro e si domanda: quando lettori e frequentatori di musei non troveranno nelle opere prodotte dal nostro tempo tracce e avvisaglie di ciò che stava accadendo, come non potranno chiamare il nostro presente l’epoca della grande cecità?

Altri temi folgoranti sono il rischio che corre l’arte di anestetizzare la rivolta civile e la consapevolezza attiva attraverso l’estetizzazione dell’orrore in bellezza. Così come un uso scioccante del potere testimoniale delle immagini possa determinare un’abitudine ad esse e un’accettazione familiare delle tragedie documentate, come già anticipava Susan Sontag. E, ancora, la necessità di porre lo sguardo non sulla fine del mondo, dinamica che deresponsabilizza e stabilizza i sentimenti dell’opinione pubblica, ma sul dopo, l’oltre la fine del mondo, per immaginare possibili soluzioni aperte.

Il saggio è l’ottimo esordio del progetto editoriale del Premio Scripta per la giovane critica d’arte, dedicato alla promozione della letteratura critica e all’indagine dei rapporti tra arte contemporanea e sfera pubblica.

Tristi tropi. Sulla possibilità di un’arte pubblica alla fine del mondo,
di Daniel Borselli, 104 pp., Gli Ori, Pistoia 2023, € 16

Veduta dell’installazione «Ice Watch» in Place du Panthéon di Parigi (2015), di Olafur Eliasson e Minik Thorleif Rosing. © UNclimatechange

La copertina del volume

Olga Gambari, 19 marzo 2024 | © Riproduzione riservata

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