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Chiara Lee
Leggi i suoi articoliFUJI|||||||||||TA è un sound artist giapponese la cui ricerca si concentra sull’esplorazione del suono ai limiti di ciò che è udibile. Il suo lavoro e la sua estetica sono in continua evoluzione: nelle performance incorpora suoni sintetici e ambientali per dar vita ad ambienti acustici complessi, in cui le texture si intrecciano e si trasformano come organismi viventi. Corpo, oggetti e elementi si fondono nella costruzione dello spazio, generando un’esperienza che coinvolge l’ascoltatore a un livello fisico.
Ha suonato su palchi prestigiosi come Rewire Festival (Nl), Big Ears Festival (Us), Bourse de Commerce (Fr), tra gli altri, e il prossimo 24 ottobre sarà tra i protagonisti del 69mo Festival Internazionale di Musica Contemporanea di Venezia (dall’11 al 25 ottobre), curato da Caterina Barbieri per una prima mondiale, un’opera site specific che esplora il potere generativo del suono e dell’acqua, attraverso l’interazione tra liquido, aria e risonanza.
Qui di seguito l’intervista avuta luogo prima della sua performance al Mao-Museo d’Arte Orientale di Torino dello scorso luglio, per il public programme «Evolving Soundscapes», curato da Chiara Lee e freddie Murphy.
Chiara Lee: Ci racconti brevemente su che cosa si basa la tua pratica artistica?
FUJI|||||||||||TA: La mia espressione sonora è di un’essenzialità estrema: lavoro con canne d’organo autocostruite e aria. Utilizzo un microfono all’interno delle canne e convoglio l’aria nei tubi usando un aerografo. È un meccanismo estremamente elementare, ma proprio questa semplicità genera contrasti e variazioni.
Mi affascinano molto le commistioni tra approcci contemporanei e musica tradizionale. Ho letto che il tuo lavoro trae ispirazione dalla musica classica giapponese, in particolare dal «gagaku»*. In che modo questa influenza si manifesta nelle tue performance o composizioni?
È vero, sono sicuramente influenzato dalla musica tradizionale, ma più che di un’influenza musicale, credo di essere maggiormente influenzato dalla visione del cosmo che gli si accompagna. È un discorso un po’ particolare: quando ho iniziato a fare musica cantavo accompagnandomi con la chitarra e in quel periodo ho cominciato a comprendere quale fosse la visione del mondo presente nella musica tradizionale giapponese, e ne sono rimasto profondamente colpito. Da lì è nata l’ispirazione per costruire il mio organo. Quando compongo musica, quindi, non distinguo tra i vari sensi, come vista e udito: è un’esperienza in cui tutti gli elementi (lo spazio, gli strumenti, il cosmo) emettono un suono e diventano un’unica entità. Questa visione del mondo, questo approccio della musica tradizionale, è ciò che mi ha influenzato maggiormente.
Nei tuoi live set spesso utilizzi una combinazione di strumenti, oggetti, field recordings, voce, ma mi sembra che le tue performance vadano oltre il semplice concerto, diventando una sorta di narrazione sonora o rituale. Sei d’accordo? E che cosa ti interessa di più quando costruisci questo tipo di esperienze?
Fondamentalmente, c’è assoluta libertà nel modo in cui la mia musica viene percepita dal pubblico. Spesso, dopo una performance, le persone mi riferiscono di essersi immaginati uno scenario o di aver compiuto un vero e proprio viaggio. Sapere che il pubblico ascolta la mia musica mi rende molto felice, qualunque sia il modo in cui la recepisce; non ho preferenze particolari su come venga accolta. Durante la performance mi concentro su qualcosa di molto semplice e cioè fino a che punto sento il piacere di produrre suoni e fino a che punto riesco a provare un senso di sorpresa percorrendo una strada sconosciuta. Ogni volta che suono, sperimento in questo senso. Quando produco i suoni, cerco di connettermi a una dimensione a me sconosciuta; per dirla in termini semplici, a una visione del cosmo.
FUJI|||||||||||TA. Photo: Studio Gonella
Questa sera eseguirai «A school of sardines in the pipe». Potresti raccontarci di più su questo lavoro: da dove nasce e che cosa esplora?
Deriva da un’aspirazione molto semplice. Per parecchi anni ho continuato a sperimentare nuove espressioni usando l’aria con l’organo che avevo creato, che è di base estremamente delicato e sensibile, perciò non avevo mai suonato ad alto volume durante le performance. Per molti anni, però, ho avuto il desiderio di produrre un suono potente durante l’esecuzione. Come potevo riuscirci, pur mantenendo uno stile acustico, usando solo una canna d’organo e l’aria? Aspiravo a ottenere un suono ad alto volume, che fino a quel momento non ero riuscito a produrre. Un desiderio semplice, se vuoi, un impulso quasi ingenuo: è stata questa l’idea iniziale. Da questa ricerca nasce il set che uso oggi.
Il tuo lavoro con le canne d’organo è davvero particolare. Da dove nasce questa passione? È stato amore a prima vista… o amore a primo suono?
Il primo momento in cui ho provato interesse per delle canne (d’organo) probabilmente è stato alle elementari. Mi piaceva una squadra di baseball chiamata Kintetsu Buffalo che aveva come logo un bufalo. E mi piaceva moltissimo il design delle corna… che sembravano proprio canne d’organo. Adesso che ci penso, credo sia stato il primo momento in cui ho cominciato a interessarmi alle canne d’organo, o meglio, alla loro forma, e da lì mi è venuta l’idea di usare l’organo come strumento. Al tempo non avevo alcun interesse in tal senso, non conoscevo lo strumento, e quindi, come dire, sono arrivato all’organo da un contesto completamente diverso.
Nella tua musica c’è un ampio range di dinamiche sonore, che oscilla tra presenza e assenza. Qual è il tuo rapporto con il silenzio?
Credo che siano i cambi di velocità nel tempo a produrre il silenzio… è difficile da spiegare, ma immagina di essere coinvolta in un incidente stradale. Nell’istante in cui il corpo viene sollevato dall’impatto di un’auto, quel momento in cui il tempo sembra dilatarsi e un istante diventa incredibilmente lungo: per me, quello è il silenzio, che in giapponese si dice «ma»**. Credo che il silenzio sia qualcosa di simile a quel momento. Quando performo non seguo regole musicali e poiché sia il movimento dell’aria che quello delle onde sonore sono un fenomeno fisico, colpendo un determinato punto le onde cambiano, ne cambia l’intensità e questo produce naturalmente ritmo. Come dicevo, lo scorrere parallelo del tempo non è uno scorrere secondo per secondo: il tempo cambia continuamente, come un’onda. Quando si dilata improvvisamente, nasce il silenzio; ma il modo in cui questo avviene dipende sempre dalla situazione e dal grado di concentrazione che ho in quel momento. Questo mi interessa molto, perché non posso controllarlo completamente: perciò uno dei filoni principali del mio lavoro riguarda proprio il modo in cui produrre il silenzio.
Note:
* 雅楽 (gagaku): Una delle più antiche forme musicali giapponesi, introdotta dalla Cina e dalla Corea fra il periodo Asuka e Heian e poi successivamente rielaborata. Si tratta di musica di corte che comprende musica cerimoniale e danze rituali, il cui uso si diffuse successivamente anche nei templi e nei santuari. In essa gli strumenti rappresentano le varie componenti dell’universo, ad esempio lo «笙» («shō», strumento a fiato simile al flauto di Pan) rappresenta la voce del cielo, lo «篳篥» («hichiriki», strumento a fiato ad ancia doppia di canne di bambù) la voce degli esseri umani sulla terra e il «龍笛» («ryūteki», flauto traverso di bambù e corteccia) la voce del drago, che muovendosi tra cielo e terra fa da tramite tra di essi.
** 間 (ma): Grammaticalmente parlando, la parola «ma» rappresenta «uno spazio tra due luoghi», ma anche «relazione tra due elementi», quindi una separazione che crea al tempo stesso un legame. Nel teatro Noh, «せぬ暇 senuhima» si riferisce ad un breve momento di silenzio o immobilità, in cui l’espressione artistica si manifesta nella capacità di mantenere la tensione emotiva pur trattenendola, nel passaggio all’azione successiva. Nella musica tradizionale, il silenzio non è assenza, ma parte del ritmo, carico di tensione ed emozione. In pittura, il «ma» è il vuoto compositivo, che esiste nell’immaginazione di chi fa esperienza dell’alternanza tra forma e non-forma.
Intervista a cura di Chiara Lee
Riprese e montaggio a cura di di Alessandro Muner
Traduzione a cura di Elisa Zebi
Foto: Studio Gonella