«Palimpsest» (2013-17) di Doris Salcedo, una delle sue opere più note, è in mostra alla Fondation Beyeler a Basilea dallo scorso ottobre (fino al 17 settembre). È un’enorme installazione a pavimento nella quale sono scritti nomi con la sabbia su lastre di pietra. Periodicamente altri nomi scritti in acqua si sovrappongono a essi, prima di ritirarsi quasi con la stessa rapidità con cui sono apparsi. I nomi sono quelli delle persone che hanno perso la vita in mare: rifugiati, richiedenti asilo; le persone più vulnerabili della società in cerca di sicurezza. In maggio «Palimpsest» è stato affiancato da altre sette installazioni dell’artista colombiana, in una grande mostra che riflette la sua costante e incrollabile attenzione alle questioni umanitarie globali: la violenza politica, i diritti umani, le eredità del colonialismo, le diseguaglianze tra il nord e il sud del mondo.
Pur alludendo spesso alla geopolitica e alla storia recente del suo Paese natale, il lavoro di Salcedo, sottolinea gli effetti di un mondo interconnesso. Un aspetto sottolineato anche nel suo lavoro più recente esposto fino all’11 giugno nella 15ma Biennale di Sharjah. Si tratta di «Uprooted» (2023), un’inquietante abitazione costruita con alberi morti che allude sia alla migrazione sia all’emergenza climatica. «Siamo tutti coinvolti in questa situazione, spiega l’artista. È un pianeta piuttosto piccolo. E tutto ciò che accade in un luogo è collegato ad altri luoghi».
Mentre inauguravate la mostra alla Beyeler Foundation, è emersa la notizia dei richiedenti asilo in Grecia costretti a salire su un barcone e a tornare in mare. Vedere «Palimpsest» installato in tutto il mondo deve essere gratificante, ma c’è anche un dolore nella sua eterna attualità?
In un certo senso ci sono abituata. Vengo dalla Colombia, un Paese dove non siamo abituati a vedere il progresso e lo sviluppo in quanto tali, dove siamo sempre immersi in una eterna crisi che ci coinvolge ogni giorno. Sono abituata al fatto che ciò che l’arte sia per lo più vana: non credo che abbia la possibilità di salvare vite o di smuovere massicciamente le coscienze. Spero magari che anche solo un singolo individuo possa capire qualcosa e condividere la sua comprensione con qualcun altro. Non è pubblicità, non siamo la grande stampa, non siamo in grado di smuovere la coscienza in questo modo. È estremamente doloroso, ma questa è la natura dell’arte ed è proprio lì che risiede la sua forza poetica. Non è sicuramente dalla parte del potere. È un compito più dolce, sottile, poetico.
La tensione di «Palimpsest» risiede nel contrasto tra questa dolcezza e la brutalità del soggetto.
È come assistere alla scomparsa di una vita che si ripete davanti agli occhi. Quando il nome che indica una vita è lì, grazie all’acqua, brilla con chiarezza. Quando inizia a scomparire è come se l’annegamento si ripetesse. Il lutto che la famiglia vive si ripete e si riattualizza continuamente, come accade anche alle famiglie che aspettano senza ricevere notizie, facendo semplicemente i conti con un’assenza ogni giorno più presente.
Anche «Uprooted», il nuovo lavoro esposto nella Biennale Sharjah, si riferisce al tema della migrazione.
Ho voluto unire questi due temi che ritengo i più importanti del nostro tempo: la migrazione e la crisi climatica. Volevo metterli insieme all’impossibilità per un migrante di possedere uno spazio su questa terra, motivo per cui sono costretti a morire nel deserto o nel mare. Volevo riflettere sul perché sono costretti a entrare in quegli spazi liminali dove è impossibile vivere. I Paesi che stanno creando il maggior numero di migranti sono anche quelli più colpiti dalla crisi climatica e brutalizzati dall’imperialismo e dal colonialismo, senza contare che ora ricevono tutti i rifiuti tossici del Nord del mondo. È semplicemente insopportabile la condizione in cui siamo costretti. In questo lavoro volevo affrontare tutti questi temi, ma una volta terminata l’opera mi sono resa conto che non stavo affrontando solo la condizione del migrante o del sud del mondo, ma di tutti noi. Stiamo tutti perdendo la nostra casa comune. I significato dell’opera si è ampliato.
C’è una correlazione tra la difficoltà di realizzazione dell’opera e la difficoltà di affrontare il tema?
Parlo sempre di opere quasi impossibili da realizzare. Mi spingo al limite. E quando le vedo finite, non capisci davvero come sia stato possibile realizzarle. Questa impossibilità va di pari passo con l’impossibilità delle condizioni, con le difficoltà estreme che le vittime, i rifugiati e ora tutti noi stiamo affrontando. È intimamente legato. A volte penso a gesti assurdi. Se c’è un enorme spreco di vite per la violenza politica ho bisogno di realizzare un gesto estremamente assurdo, che mostri quello spreco di energia e di vite. Quindi faccio cose che vanno contro la logica dei mezzi di produzione della nostra società: Ricamo nel legno in «Unland» (1995-98); un enorme sudario di petali di rosain «A Flor de Piel» (2012). Questa assurdità mostra la profonda difficoltà e le esperienze estreme che ricerco con attenzione e che cerco di affrontare.
Ha affermato che l’emozione è estranea a gran parte dell’arte contemporanea occidentale. Eppure lei usa proprio alcuni dei suoi linguaggi, dal Minimalismo all’objet trouvé, per comunicare forte emozione.
Sì, è come se i sentimenti e le emozioni fossero parole sporche nell’arte. Tutto dovrebbe essere neutro e asciutto. Credo che la mia attitudine sia dovuta al fatto che vengo dal Sud del mondo, racconto storie piene di emozioni, storie che si basano su eventi reali, che non sono state raccontate, ma di cui c’è un enorme bisogno. Dove sono cresciuta quando ero giovane mi è stato detto che appartenevo a una società sottosviluppata; la mia mente era sottosviluppata, la nostra arte era sottosviluppata, la nostra economia, la nostra industria. Riuscite a immaginare quanto sia brutale crescere sapendo di essere sottosviluppata? A poco a poco ho iniziato a pensare che non è così. Tutti noi abbiamo le stesse capacità e le stesse competenze. Dobbiamo solo raccontare la storia da un altro punto di vista. Siamo inseriti nel canone dell’arte occidentale perché qualsiasi altra arte è stata distrutta dall’imperialismo europeo. Dobbiamo capovolgere quel canone per raccontare le nostre storie. In questo capovolgimento deve emergere l’emozione, perché la quantità di dolore che la società ha dovuto sopportare è enorme. Quindi deve essere presentato, deve essere mostrato. E non c’è altro modo se non con i sentimenti.
Nei suoi lavori c’è una correlazione diretta tra materiale e metafora. La metafora, che lei utilizza spesso, nasce come un’epifania o attraverso un duro lavoro con i materiali in studio?
Entrambe le cose. Lavoro per anni e molto intensamente alla ricerca, alle interviste, ai disegni e agli schizzi. Poi, dopo tutto questo lavoro, arriva all’improvviso l’epifania. E il lavoro è completo. Appare per esempio in un disegno, è materialmente lì, non oso dire che ci penso: appare e basta, come se mi fosse stata raccontata. Naturalmente devo fare delle prove materiali. Ma è chiaro che ci saranno lacrime o acqua, è chiaro che dovrà essere calcestruzzo o alberi morti. Si presenta così in uno schizzo, completo come un pezzo quasi finito. E poi c’è la lotta per perfezionare la materialità.
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