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Francesco Manacorda
Leggi i suoi articoliPer troppo tempo il museo è stato considerato, gestito e percepito come prerogativa degli addetti ai lavori. La sua funzione di validazione di pratiche, evoluzioni e oggetti, di narratore di storie e produttore di conoscenza, ha contribuito a mantenere un tono di voce e una postura marcatamente accademici. In questo modo, chi non possiede già una formazione specifica rischia di vivere un’esperienza parziale o persino frustrante. Tradizionalmente, gli operatori del settore hanno adottato due modalità ben definite: da un lato, il «discorso» prodotto dall’istituzione si rivolge come lettore ideale (per dirla con Umberto Eco) ai propri colleghi, secondo la consuetudine accademica; dall’altro, il rapporto con il pubblico rimane unidirezionale. La conoscenza è nelle mani dei professionisti, mentre al pubblico si chiede soltanto di riceverla, già confezionata e pronta all’uso.
Spesso si discute di come il successo dei musei venga misurato in base al numero di visitatori. Ritengo eticamente imprescindibile raggiungere il maggior numero possibile di persone: i musei, in quanto istituzioni pubbliche, hanno il dovere civico di fungere da ponte tra arte e pubblico, rendendo l’arte accessibile al più ampio numero di fruitori. Tuttavia, questo obiettivo non può essere perseguito secondo la logica del «panem et circenses», limitandosi cioè a offrire ciò che il pubblico già conosce o apprezza. Un’altra missione fondamentale del museo è infatti sostenere gli artisti nelle loro esplorazioni più radicali e difficili da assimilare. Non possiamo applicare con efficacia le tradizionali regole del marketing: l’industria produttiva studia la domanda di mercato e su di essa declina una nuova offerta, a volte anche creando nuovi desideri; nel campo artistico, invece, l’opera arriva all’industria culturale già finita e non è adattabile ai desideri del pubblico, né nasce per soddisfare una preferenza preesistente. Oggi più che mai è importante comprendere che non si va al museo perché si conosce già la storia dell’arte, e non deve essere questa una condizione necessaria per fruirne. Al contrario: si va al museo proprio perché non si sa. Il visitatore ideale del museo è quello che rimane a suo agio nel non sapere: al contrario della credenza diffusa meno sai, meglio è. L’incontro con l’arte contemporanea rappresenta, anche per gli addetti ai lavori, una scoperta di territori inesplorati, mai completamente comprensibili o riducibili a un’unica interpretazione ufficiale. Più l’arte è significativa, più essa si comporta come un prisma: riflette domande diverse in epoche diverse, e suscita reazioni differenti a seconda di chi la guarda.
Ritengo quindi fondamentale sottolineare che la missione del museo non è diffondere conoscenza, ma legittimare e normalizzare il non sapere. La sua funzione deve essere quella di stimolare, coltivare e celebrare la curiosità come strumento di indagine del mondo. Il museo deve diventare una palestra per sviluppare la tolleranza verso ciò che non comprendiamo, e per far germogliare da questa condizione nuove domande. Domande a cui, come osservava qualche anno fa Chris Dercon (già direttore della Tate Modern di Londra, oggi della Fondation Cartier pour l’Art Contemporain di Parigi, Ndr), «Google (e oggi potremmo aggiungere ChatGpt) non sa né può rispondere». La misura del successo di un’istituzione culturale, dunque, dovrebbe essere duplice: raggiungere il maggior numero di persone possibile e, al contempo, metterle nella condizione di apprezzare la curiosità come forma permanente di apertura verso l’arte e verso il mondo. Il museo non deve essere un elargitore di conoscenza conclusa, ma un centro di diffusione del non sapere e della capacità di interrogarsi. O, per citare una collega, un «portatore sano di disastri».