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Gregorio Botta
Leggi i suoi articoliBisogna essere disposti a lasciarsi andare, abbandonando abitudini e aspettative, quando ci si accinge a vedere «Arsa» (2024), uscito nelle sale il 24 aprile. «Dì la verità, ma dilla obliqua» recitava Emily Dickinson a sé stessa. E proprio così, obliquamente, il duo Masbedo (Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni) ha girato, dopo una lunga militanza nella videoarte, il suo lungometraggio: creando un film immersivo e avvolgente, che dice senza raccontare, evoca senza spiegare, mostra senza descrivere. Scarsissimi i dialoghi (la protagonista, l’intensa Gala Zohar Martinucci domina lo schermo senza quasi pronunciar parola), pochi gli attori, mentre la natura di Stromboli così potente, ancestrale, irriducibile, diventa parte essenziale dell’opera. Una trama naturalmente c’è, ma è ridotta all’osso, raccontata quasi per appunti. È nata da un’idea che i Masbedo e Beatrice Bulgari, che ha prodotto il film, hanno avuto durante una vacanza a Ginostra (Me), la parte più selvaggia e irraggiungibile dell’isola.
Selvaggia e irraggiungibile è anche la ragazza che vive sola in una minuscola casupola al centro di un canneto. Si chiama Arsa e già questo ne indica l’alterità: nome inesistente, che echeggia però sia paradisi indiani sia l’aridità della terra bruciata dal sole sulla quale cammina. Lei appartiene all’isola e l’isola le appartiene: come un Ariel della Tempesta shakespeariana, la custodisce e protegge, pulendola dai rifiuti, allontanando gli estranei dalla zona che le è più cara. Ma, al contrario di Ariel, è scontrosa e non ha nessun desiderio di essere liberata. Quando un giovane turista irresistibilmente attratto da lei la salva dall’annegamento, lei lo allontana bruscamente.
Non ha, d’altronde, un Prospero a proteggerla: il padre scultore è morto e viene spesso evocato in un luogo indefinito dell’anima (un sogno, una rêverie?). Arsa ricorda, continuamente, lei bambina che chiede al padre di raccontarle la favola del mostro: un mostro marino così grande da sembrare, guarda un po’, un’isola. «Il mostro, il mostro» ripete ossessivamente. Ma non ne è spaventata: il mostro, sembrano suggerire i Masbedo, è restituito al suo significato originario di prodigio, di evento o personaggio soprannaturale. È una creatura della soglia, misteriosa e sconosciuta, invisibile ma presente. Alla cui ombra si dipana la storia, e nella cui ombra se ne racchiude il senso: che è quel sentimento di spaesamento e perdita, di pienezza e perturbamento che il mondo estremo abitato da Arsa può suscitare in ognuno di noi. I registi sono abili a contagiarne lo spettatore, facendolo perdere nell’alto canneto, facendogli calpestare la nera, ustionante sabbia dell’isola, disperdendo i rari turisti sulle rocce come in un limbo dantesco, inquadrando orizzonti infiniti, senza terre lontane. E non facendoci mai vedere Stromboli nella sua interezza. Il vulcano in perenne attività, il suo cupo, ritmico, rombare, non appaiono sullo schermo: sarebbero stati troppo connotativi, trasformando l’immagine in una cartolina, in un già visto.
No, «Arsa» ci precipita in un paesaggio esteriore che sa diventare interiore: un paesaggio assoluto, uno dei «mindscape» così acutamente descritti dal saggista Vittorio Lingiardi. Chi non è stato attraversato da un senso di inquietudine e fragilità, di solitudine e felicità nuotando al largo, quando non può capire che cosa sono quelle ombre che si agitano sul fondale? È in quel profondissimo blu di Prussia, in quell’abisso insondabile pieno di possibilità che la ragazza intravedrà finalmente il suo prodigio, il suo bellissimo mostro: un bronzo di Riace semisepolto nella sabbia, oggetto (come in La Gradiva, 1903, la novella di Wilhelm Jensen resa celebre da Freud) di un trasporto impossibile, ma probabilmente inevitabile e necessario.
Fermiamoci qui, non bisogna spiegare quel che i Masbedo non dicono. Hanno consegnato allo spettatore non solo una storia, ma un’esperienza. È il segreto della bellezza del film: mescolare l’intensità e la profondità della videoarte con i tempi e i codici del lungometraggio. Operazione alchemica ardita, quasi un miracolo. Ma riuscito. Per questo «Arsa», anche se viene visto in poche sale, è un’opera che resterà.