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Fiona Reynolds
Leggi i suoi articoliLo spirito umano non si nutre solo di progresso materiale. È venuto il tempo di riprendere contatto con la natura.
Bellezza è un termine che tutti usiamo per descrivere la meraviglia del mondo che ci circonda: un paesaggio che amiamo, le trasparenze di un’ala di farfalla alla luce del sole o una splendida architettura. Tutti amiamo la bellezza; basta vedere quanti si incollano alla TV a guardare programmi dedicati alla natura e il modo in cui ci precipitiamo in spiaggia o in campagna quando esce un po’ di sole, per capire che è qualcosa che risponde a un reale bisogno del genere umano. Eppure sarà ben difficile che troviate questa parola nei documenti ufficiali, o che sentiate qualche politico parlarne. Sembra che parlare di bellezza se non in un contesto privato ci crei imbarazzo. Abbiamo invece coniato una serie di termini pseudomanageriali per descrivere ciò di cui dovremmo preoccuparci, termini come ecosistema, patrimonio naturale e sviluppo sostenibile. E quando prendiamo decisioni relative al futuro, ci comportiamo tutti come se dovessimo generare crescita e ritorno economico.
Ma non è sempre stato così. La bellezza era una parola e un’idea che la gente dei secoli passati usava liberamente e con fiducia, anche in ambito legislativo e politico. E dal momento che la gente celebrava la bellezza, essa era qualcosa che si desiderava creare, in città e in campagna, e si emanavano leggi per proteggere le cose e i luoghi che la gente amava. La bellezza è radicata in profondità nella nostra cultura. I testi antichi rivelano il desiderio di bellezza. Geoffrey Chaucer, il padre della letteratura inglese, scrisse che in aprile era la bellezza della primavera a «spingere il popolo a partire in pellegrinaggio». I capomastri medievali costruivano chiese e cattedrali favolose, incidendo fiori e animali nella pietra. Nel corso della storia, artisti e architetti hanno cercato di raggiungere la perfezione estetica e la natura ha ispirato innumerevoli poeti e scrittori.
In Gran Bretagna il campione della bellezza fu forse William Wordsworth. Agli inizi del XIX secolo egli vide il suo amato Lake District messo sotto pressione dalla costruzione di orrende ville; lo sfruttamento commerciale delle miniere; l’invasione di alberi alieni, «larici appuntiti», e la prospettiva dell’imminente arrivo a Windermere della ferrovia. Il suo sfogo «non c’è dunque più un angolo di terra inglese al sicuro dagli assalti selvaggi?» galvanizzò un movimento di persone che amavano la bellezza ed erano pronte all’azione per difenderla.
John Ruskin portò avanti la lotta con le sue campagne contro gli orrori dell’industrializzazione selvaggia e delle sue conseguenze sociali. I suoi sforzi portarono alla creazione del National Trust e alle prime riflessioni su una corretta pianificazione che abbia come obiettivi «la casa salutare, la casa bella, la città gradevole, la città riqualificata e le periferie più salubri».
In seguito, la bellezza contò abbastanza da determinare le politiche per il bene pubblico. E così, dopo l’orrore delle due guerre mondiali, il Governo del 1945 mise in atto un pacchetto di misure che venissero incontro non solo alle basilari necessità dell’uomo, ma anche al suo benessere spirituale, fisico e culturale. La designazione di parchi nazionali, la protezione del patrimonio culturale e la salvaguardia della campagna stavano al pari del diritto universale all’istruzione, della sanità pubblica e dello stato sociale.
Capimmo allora, e oggi pare che lo abbiamo dimenticato, che lo spirito umano non si nutre soltanto di progresso materiale. Come disse nel XIX secolo l’ambientalista John Muir: «Tutti hanno bisogno di bellezza così come di pane».
Eppure oggi sembra ci siamo lasciati sedurre da ciò che l’economista americano Albert Jay Nock definiva «economismo»: ciò che «può costruire una società ricca, prosperosa, potente, persino una società in cui il benessere materiale sia ragionevolmente diffuso. Ma che non può costruirne una piacevole, una che abbia gusto e profondità e che eserciti l’irresistibile potere di attrazione che è proprio della bellezza».
Quando oggi parliamo di progresso intendiamo solo il progresso economico per cui il nostro numero di riferimento è il Pil. Il Pil registra solo guadagni, spese e produzione e non prova nemmeno a tenere conto delle molte cose importanti che il denaro non può comprare, le cose che ci rendono felici e le risorse naturali da cui tutti dipendiamo. Così ci induce a pensare che le cose stiano andando bene mentre invece stiamo distruggendo il nostro futuro di lungo termine.
Durante il secolo scorso abbiamo perso una vasta ricchezza naturale e gran parte della varietà del nostro paesaggio; abbiamo degradato il nostro suolo e le nostre risorse naturali. Nonostante i grandi sforzi, la natura e la bellezza delle campagne versano in uno stato peggiore di quando il movimento di conservazione si attivò per proteggerle. Si aggiunga a questo l’incombente pressione esercitata dai cambiamenti climatici e appare evidente che dovremo agire in modo diverso.
E qui la bellezza può aiutarci. La bellezza non ha a che fare unicamente con l’estetica: è un modo di guardare il mondo che dà valore alle cose alle quali non possiamo attribuire un valore materiale, così come a quelle che possiamo misurare. Noi cerchiamo prosperità, ma ci serve un tipo diverso di progresso. Viviamo in un’era in cui sempre meno di noi sono guidati da imperativi religiosi, ma non siamo carenti di spiritualità, né della capacità di attivarci e combattere per cose migliori. La bellezza può dare forma a questo desiderio.
Immaginate come apparirebbe il mondo se ridessimo vigore alla lotta per la bellezza. Ci occuperemmo di più del mondo intorno a noi. Costruiremmo le nostre città, paesi e infrastrutture con l’intento di fare delle cose belle. Immaginatevi il dibattito sull’alta velocità se avessimo voluto farne la più bella nuova ferrovia del mondo. Proteggeremmo la natura e la campagna, invece di limitarci a produrre cibo a sufficienza. Ci preoccuperemmo del nostro patrimonio culturale e ci concentreremmo sul miglioramento della qualità della nostra vita invece di affannarci alla ricerca di insostenibili livelli di crescita. John Muir, come in tanti altri casi, formulò la giusta definizione: la lotta per la bellezza è «non cieca opposizione al progresso, ma opposizione al progresso cieco». È una battaglia cui tutti abbiamo bisogno di partecipare.
Fiona Reynolds, master dell’Emmanuel College, Cambridge, ex direttore generale del National Trust