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Un frame dal videoclip musicale di «No tengo dinero» (1983) del duo torinese dei Righeira

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Un frame dal videoclip musicale di «No tengo dinero» (1983) del duo torinese dei Righeira

Pas de deux | I Righeira e le piscine

Dalle immagini del video di «No tengo dinero» a un tema iconografico diffuso nel corso dei secoli, da Jacopo del Sellaio a Bradford e Alcindor, secondo Stefano Causa e Arabella Cifani

Stefano Causa e Arabella Cifani

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Mondrian come pianta d’appartamento

A una delle grandi intelligenze del secolo lungo ci si potrà arrivare passando dal duo musicale torinese, i Righeira, su cui grava l’onere di avviare in direzione spiaggia questa e altre combinazioni caratterizzanti gli anni 1980 (la conciliazione di spunti figurativi e letterari inconciliabili; il pop elettronico sciocco e scicchissimo, il disimpegno sbandierato col massimo impegno, l’auspicabile deideologizzazione, insieme all’assodamento della stagione estiva come santuario della memoria).

Nel videoclip di «No tengo dinero», giusto quattro decenni fa da oggi, la coppia si esibisce, in primo piano e campo lungo, dentro una stanza in puro stile odissea nello spazio, dove un video a parete proietta a loop pezzi di Mondrian semplificati. Quel corto musicale del 1983, capolavoro del regista e animatore padovano Pierluigi de Mas è, tra le altre cose, indizio di come si ragionasse in età postmoderna sul magno maestro olandese (che intanto diventava episodio di arredamento: ciò che lo avrebbe colpito a morte più di ogni altra cosa sebbene lui stesso, scomparso quarant’anni prima dei Righeira, ne fosse stato artefice).

A Mondrian (ma un Mondrian che fa a meno di Mondrian e si trasforma in pianta d’appartamento), si alternano schegge di un film del 1938 di Goffredo Alessandrini, «Luciano Serra pilota» con Amedeo Nazzari (oltre ad altri filmati di repertorio di epoca fascista). Né manca, in questa ricreazione postmoderna tra cinema, pittura e videoarte la citazione della «Città vuota» del 1914 di un geniale e sfortunatissimo Antonio Sant’Elia, convinto assertore che «dopo il  Settecento non è più esistita nessuna architettura».

«Money’s too tight (To mention)», cantavano i Simply Red nell’album di debutto («Picture book» del 1985). «No tengo dinero», composta dai fratelli La Bionda due anni prima, vuol dire più o meno la stessa cosa. Ma vuoi mettere? «Non ho soldi» suona veloce come uno sparo. Aggiungi lo spagnolo, ammiccante e a presa rapida. Con quel ballo facilino in stile spazzaneve i Righeira, pretta creatura dei La Bionda, parevano ed erano inarrestabili.

«No tengo dinero» ci metterà meno di tre secondi a diventare un modo di dire (e difatti, nel 1983 e a lungo, se ne userà e abuserà per qualunque cosa). Diventa un tormentone. O meglio: un doppio tormentone, titolo e canzone! Paghi uno e porti via due. [Stefano Causa] 


Ho fatto splash. Come annegare con eleganza a Ferragosto fra una piscina pubblica e le molte piscine della storia dell’arte. Da Jacopo del Sellaio a David Hockney e oltre.

Non avevo mai saputo nuotare. E c’è un perché. Le suore della scuola dove andavo alle elementari ritenevano, sa Dio per quale misterioso motivo, che i bambini, una volta buttati in acqua, potessero galleggiare automaticamente da soli come boe. A me non andò proprio così. Ricordo la terrificante esperienza di essere stata acchiappata come un pesce e buttata in acqua di brutto (con un costumino nero molto accollato, «ad usum monialium»), l’impatto violento con il liquido freddo, il fondo toccato rapidamente mentre l’acqua mi entrava da gola, orecchie, naso. Non lo sapevo ma stavo annegando. Mi tirarono fuori mezza morta e tossii a lungo cercando di tirare dentro tutta l’aria possibile.

Tornata a casa annunciai a mia madre che mai più sarei andata in piscina, pena un ammutinamento totale negli studi e in qualsiasi altra cosa. E ero molto decisa a farlo. Per oltre quarant’anni al mare mi sono guardata bene dall’andare oltre i dieci centimetri lontana dalla riva e l’acqua mi ha sempre spaventata e inquietata.

Poi è arrivato il mio ortopedico, dottore di grande talento ma perentorio: «devi assolutamente nuotare per il mal di schiena, vedrai che ti passerà». Non usa a discutere gli ordini dell’amico Michele, mi sono dovuta iscrivere a nuoto con istruttore privato. La prima lezione, in un piscina olimpionica dove non si tocca da nessuna parte, è stata un’esperienza di puro terrore.

Alla sesta lezione, dopo aver bevuto litri di disinfettante da piscina nel quale erano stati sciolti alcuni residui d’acqua, improvvisamente ho cominciato a stare a galla e ho scoperto che non avevo più paura, anzi, mi divertivo. Così le piscine hanno cominciato ad interessarmi sotto tutti i punti di vista (mi sono persino accorta dell’esistenza reale del mio molto notevole istruttore con muscolatura guizzante e occhio vispo).

E mi sono anche ricordata del film «La piscina», capolavoro di Jacques Deray con un Alain Delon da levare il fiato e scene di sesso torrido (per i tempi) ancora molto impattanti, con una bellissima Romy Schneider. E poi, a ritroso, mi sono tornate in mente tutte le piscine che conoscevo della storia dell’arte, dalla «Piscina probatica» di Gerusalemme a quelle di David Hockney. Ma quante piscine sono state dipinte nei secoli? E perché tutti ci sguazzavano meglio di me?

La piscina per eccellenza è appunto la «Piscina probatica» di Gerusalemme, dove è ambientato il celebre episodio evangelico (Giovanni 5,1-17) della guarigione del paralitico. Ai suoi bordi stazionavano storpi e infermi d’ogni genere in attesa di un angelo che ogni tanto discendeva e agitava l’acqua. Il primo che ci entrava dentro dopo la visita alata guariva da qualsiasi malattia fosse affetto. Il tema è stato trattato innumerevoli volte dai pittori di tutti i secoli.

Solitamente la piscina non si vede bene perché è Cristo a dominare la scena; ci sono però eccezioni come nella tavola di Jacopo del Sellaio (Castiglion Fiorentino, Pinacoteca Comunale) dove la piscina sembra quella di una spa, o l’efficace miniatura del «Leggendario Sforza-Savoia» dove tutti si catapultano in acqua mostrando anche le mutande all’arrivo dell’angelo. La più divertente è quella di Paolo De Majo che sta al Museo dei Cappuccini di Milano dove la piscina sembra una di quelle estive popolari con un disordine e un affollamento veramente molto napoletano.


Venendo più avanti nel tempo troviamo quella, glaciale, di uno degli ultimi preraffaelliti, Robert Bateman (Yale Center for British Art, New Haven) dove per ragioni di salute è meglio non cadere, e poi vediamo il soggetto sparire dallo schermo della storia dell’arte. Perché anche le piscine si laicizzano con il XIX secolo.

Nel 1934-36 a de Chirico vengono in mente, guardando un parquet lucidato, la serie di dipinti e litografie dei «Bagni misteriosi», dove l’acqua effettivamente sembra proprio un pavimento a listelli di legno ma che danno la scarica elettrica a personaggi che stanno in piscina già paralizzati per conto loro. Certamente gente che aveva paura dell’acqua come me e che quindi ci va dentro rigida come uno stoccafisso. Le piscine poi nel secondo Novecento spopolano, patinandosi fra Vogue e la fotografia, ma le loro fortune pittoriche sembrano finite.

Ci voleva David Hockney incantato dalle piscine dalla California per ridare sprint al tema, solo che con lui i prezzi delle piscine si alzano troppo e nel 2018, per entrare in una sua piscina, («Pool with Two Figures») qualcuno ha sborsato 90,3 milioni di dollari (80 milioni di euro). È vero che le piscine di questo artista piacciono, fra richiami alla Pop art e concessioni al gusto americano, ma fare splash con lui è diventato impossibile. Il quadro costato così caro ha un uomo che guarda, vestito e indifferente, una persona che nuota: mi starà guardando mentre galleggio come un tonno fra annegamento e desiderio di sopravvivere.

Il successo di Hockney ha fatto da apripista a una serie di giovani artisti contemporanei che sperano con la piscina da loro dipinta di pagare le spese di condominio e magari di comprarsi una casetta al mare. Non sono nemmeno male, anzi, qualcuno me lo porterei anche a casa.


In particolare la talentuosa Katherine Bradford specializzata nel dipingere piscine poetiche e oniriche e Jean-Robert Alcindor, entrato nelle scuderie della Saatchi Art di Los Angeles, e che con quadri come «Swimming Pool. Un Soir d’Été» del 2022 riesce a dare emozioni forti. Anche perché il suo quadro è in realtà un incubo con il cadavere di un annegato che galleggia in una piscina e un cavallo (dentro l’acqua) che lo osserva mentre intorno cala il crepuscolo. Non vorrei fosse il mio destino. Continuerò a fare scuola di nuoto. In piscina. [Arabella Cifani]

 

«Swimming Pool. Un Soir d’Été» (2022), di Jean Robert Alcindor

«Camping Trip» (2016), di Katherine Bradford. Foto per gentile concessione dell'artista e della galleria Canada (New York)

«Dark Pool in the Dark Sky» (2016), di Katherine Bradford. Foto per gentile concessione dell’artista e della galleria Canada (New York)

«Pool with Two Figures» (2018), di David Hockney

I «Bagni misteriosi» (1934), di Giorgio De Chirico

«La piscina di Betzaetà» (1877), di Robert Bateman. Foto: Google Art Project

«Piscina probatica» (1750 ca), di Paolo De Maio

Una miniatura tratta dal «Leggendario Sforza-Savoia», Milano (1476). Foto: Biblioteca Reale, Torino

«La piscina probatica» di Jacopo del Sellaio e bottega (1450-1500 ca)

Stefano Causa e Arabella Cifani, 15 agosto 2023 | © Riproduzione riservata

Pas de deux | I Righeira e le piscine | Stefano Causa e Arabella Cifani

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