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Una veduta della retrospettiva di Ed Ruscha «Now Then» in corso al MoMA. Foto Fatih Aktas/Anadolu Agency Via Getty Images

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Una veduta della retrospettiva di Ed Ruscha «Now Then» in corso al MoMA. Foto Fatih Aktas/Anadolu Agency Via Getty Images

Quanti quadri ha scritto Ed Ruscha

Al MoMa 200 opere dell’artista che ha posto parole e frasi al centro della sua produzione

Linda Yablonsky

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A Ed Ruscha, l’ottantenne artista di Los Angeles, piace «l’idea di una parola che diventa immagine. Tutto possiede ironia, afferma l’artista, nulla le sfugge». È questo il principio dominante di «Now Then», la retrospettiva composta da 200 opere a lui dedicata dal MoMA di New York fino al 13 gennaio 2024 (dal 7 aprile al 6 ottobre 2024 si trasferirà al Los Angeles County Museum of Art).

Le parole sono ovunque: isolate, presentate come esplosioni di suoni impudenti tipo fumetti («Oof», «Ugh»), titoli («Annie»), giochi di parole («News, Mews, Pews, Brews, Stews & Dues»), nomi di brand («Spam»), simboli (quello di Hollywood) e frammenti di discorso. Uno di essi recita: «Non voglio nessuna retrospettiva». Il suo senso dell’umorismo ha un effetto benefico su chiunque legga la sua arte, che si tratti di dipinti, disegni, serigrafie, libri, fotografie o pubblicità per riviste.

Esempi di ognuna di queste opere fanno da contraltare a una presentazione sincopata e mixata allestita da Christophe Cherix, curatore capo del dipartimento di disegni e stampe del MoMA, movimentando un museo dove l’arte contemporanea sembra spesso un bambino orfano. Il primo quadro «scritto», un olio del 1962 delle dimensioni di un cartellone pubblicitario, cattura il glamour di una prima cinematografica con grandi lettere rosse a formare la scritta «20th Century Fox». La sintesi di fama, potere, clamore e tempo in un’unica immagine a grande schermo è caratteristica della capacità di Ruscha di far scattare contemporaneamente diverse associazioni nella mente. Il dipinto introduce anche la sua predilezione per le diagonali allungate, un elemento strutturale che conferisce un senso di dinamismo alle composizioni.

La visione diagonale è perfetta per «Standard Station, Amarillo, Texas» (1963), che raffigura una stazione di benzina, come la si vedrebbe allontanandosi dal distributore a notte fonda. Sono opere frutto di viaggi in auto lungo la leggendaria Route 66. È una delle fonti dell’inevitabile senso di nostalgia che pervade la mostra. Ruscha imboccò questa strada la prima volta nel 1956, un anno prima dell’uscita di «Sulla strada» di Jack Kerouac. Si era appena diplomato a Oklahoma City, dov’era cresciuto, e si era diretto a Los Angeles per cercare fortuna come artista pubblicitario. Qui diventò grafico della rivista «Artforum» dal 1965 al 1969. Durante questi anni, diede il via a quella che diventò una caratteristica della rivista, realizzando appariscenti annunci per le sue mostre (eccezione fu l’ironico annuncio del suo matrimonio: una fotografia dell’artista a letto con due donne).

In quel periodo, l’ufficio di Ruscha era sopra la Ferus Gallery, la prima a rappresentarlo. Da lì assistette al debutto delle «Campbell’s Soup Cans» di Warhol nel 1962, un esercizio di motivi ripetuti e consumismo di massa che il giovane artista presto trasferì in libri autopubblicati di fotografie in bianco e nero. È il caso dello storico «Twenty-Six Gasoline Stations» (1963) con scatti realizzati a bordo strada, mentre «Every Building on the Sunset Strip» (1966), un lungo foglio piegato a fisarmonica, è più fedele alla reale topografia dei luoghi.

Ruscha si è divertito con i suoi materiali (spesso commestibili), in particolare con «Chocolate Room», highlight della mostra. Risale al 1970, quando serigrafò centinaia di fogli di carta con pasta di cioccolato e li appese, dal soffitto al pavimento, in una sala del Padiglione degli Stati Uniti alla 35ma Biennale di Venezia (pare che le mosche lo avessero apprezzato molto). Il mio primo incontro con quest’opera, al Museum of Contemporary Art di Los Angeles (dov’è conservata), mi lasciò stordita. Al MoMA, forse a causa al ricambio d’aria, di «Chocolate Room» il profumo si sente appena. Non importa. Come dito puntato contro la rigidità del Minimalismo e come frecciata all’opacità del Concettualismo, mantiene intatta tutta la sua fragranza.

L’altra importante apparizione di Ruscha a Venezia fu nel 2005, quando rappresentò gli Stati Uniti con «Course of Empire», una serie di dipinti raffiguranti fabbriche e magazzini, basati sul ciclo più pastorale di Thomas Cole del XIX secolo. Il MoMA ne espone cinque esemplari. Il museo ha acquistato il dipinto «OOF» del 1962 solo nel 1998 ed è una delle poche opere in «Now Then» che non provenga da uno degli 80 prestatori.

I libri di fotografie di Ruscha sono l’eccezione più significativa; sono conservati nella biblioteca del museo dal 1970, anno in cui l’artista prese parte a «Information», mostra di riferimento per l’arte concettuale. Cherix ha fatto buon uso di questo ben di Dio, collocando vetrine con i libri in quasi tutte le sale della mostra. L’energia che la pervade inizia a scemare con l’esposizione inutilmente ripetitiva di dipinti di Ruscha degli anni Ottanta che riportano frasi stampate su finti sfondi di montagna. Trova nuovo vigore in una sala di quadri quasi luttuosi, dello stesso decennio (tra cui un cupo ritratto di Dumbo).

Fortunatamente la rassegna riserva altre sorprese. Tra queste, alcune piccole ed emozionanti tele astratte che sembrano codici di segni e due recenti, grandi tele raffiguranti rifiuti a bordo strada con una sorta di assurdità spietata di cui solo Ruscha poteva esser capace. Se «Now Then» a volte è un po’ ripetitiva, c’è veramente poco che può non piacere. Tutti possono entrare in contatto con un’immagine che non ha un significato prestabilito: come il titolo della mostra, ogni Ruscha è una strada a doppio senso di marcia.
 

Una veduta della retrospettiva di Ed Ruscha «Now Then» in corso al MoMA. Foto Fatih Aktas/Anadolu Agency Via Getty Images

Linda Yablonsky, 06 novembre 2023 | © Riproduzione riservata

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