Per la sua prima personale in Spagna, allestita fino al 13 novembre da Hauser & Wirth Menorca, Rashid Johnson (Chicago, 1977; vive e lavora a New York), ha realizzato un nuovo corpus di opere, tra sculture di bronzo e dipinti delle serie «Seascape paintings», che presenta insieme ai «Bruise Paintings» e «Surrender Paintings». Lo abbiamo incontrato sull’Illa del Rei, in occasione della vernice.
Come ha concepito questa mostra,«Sodade», titolo ispirato alla canzone tradizionale di Capo Verde degli anni ’50 e poi resa popolare da Cesária Évora?
La mostra ritorna sul mio lavoro con opere recenti esposte per la prima volta. «Sodade» è una parola portoghese che suggerisce un po’ di tristezza e malinconia, proprio quella che ho provato negli ultimi anni, ma è anche l’espressione di una nostalgia, di uno spostamento. La canzone illustra questo sentimento in modo incredibile. La mia mostra da Hauser & Wirth Menorca è un modo di esplorare questo viaggio. Ho iniziato il primo nucleo di opere, i «Seascapes», paesaggi marini blu, quando vivevo a Long Island, vicino a New York in riva al mare.
Avevo una barca e sull’oceano ho provato quei momenti davvero singolari. Negli ultimi anni abbiamo commentato moltissimo la pittura chiedendoci: «È politica? È contemplativa?». È ora di cominciare a pensare che si tratta di un soggetto collettivo. Sono motivi navali, anche se mio figlio si rifiuta di considerarli tali. Questi vascelli stilizzati vi trasportano, è l’idea della transizione ma anche della coesistenza; tutte queste barche individuali formano una comunità, insieme, in sincronia.
Il mio lavoro ha parlato molto di esilio. In questo caso, l’insieme funziona più come una pausa, un’occasione per fermarsi e progredire. Un’opera non avanza in modo lineare, oscilla tra momenti di frustrazione e di pace. È lo stesso per questa mostra: vi si vedono dei paesaggi marini notturni, poetici, poi si torna a pezzi più malinconici.
Penso che la malinconia sia il posto migliore che possa esserci tra la gioia e la tragedia. Alcuni dei miei dipinti hanno per tema la linea, la griglia. Mio madre era docente universitaria, mio padre, ingegnere; quand’ero bambino a casa nostra avevamo un sacco di carta a righe e per questo ho cominciato a disegnare seguendo le linee…
Questo avrebbe potuto rappresentare uno svantaggio, ma per me ha funzionato. Uso spesso le mani e le dita per disegnare e dipingere. M’interessa il modo in cui la materia reagisce sulla superficie, aggiungo strati, li tolgo… È l’occasione di sviluppare un gesto creando a volte degli accidenti interessanti. Presento un nucleo di opere nelle quali ero un uomo arrabbiato. Sono sempre stato una persona ansiosa. La realizzazione del corpus mi ha davvero aiutato a esprimere questo sentimento: un’ ansia che si è manifestata in rosso nel 2020, riflettendo gli spaventosi momenti che ho attraversato. Il lavoro ripetitivo e continuo sul tratto, come una linea senza inizio né fine, crea nel mezzo uno spazio minimale.
«Bruise Painting “Sodade”» (2021) è l’opera più meditativa e arricchente che ho realizzato. Mi è piaciuto molto vivere il tempo del suo farsi, tra trauma e meditazione. Cerco davvero di creare dei dipinti che mi diano lo spazio necessario per esplorare la complessità del sé, che si tratti di un concetto intellettuale o di un sentimento personale. L’idea è di sentire pienamente qualcosa. I «Seascapes» sono orientati alla contemplazione mentre i «Bruise Paintings» sono più legati al gesto.
È un modo questo di sviluppare un linguaggio nella mia enciclopedia di strumenti visivi per catturare quello che sono nel momento stesso in cui dipingo, il mio stato attuale. Sono ancora un giovane artista, pertanto questo linguaggio continuerà a svilupparsi. È il viaggio di una vita. Ma tendo progressivamente alla semplicità, abbandono a poco a poco: voglio infatti che le persone possano leggere direttamente la mia pittura, senza bisogno di spiegazioni. Più vado avanti, più la notorietà acquisita mi consente di toccare un pubblico vasto ma anche di avere meno da dire sul mio lavoro. Basta guardare alla mia pratica: cerco sempre d’imparare e di condividere il mio lavoro e la mia visione.
Un altro corpus presentato nella mostra s’intitola «Surrender Paintings». Assomigliano a una nuvola di fumo, quando qualcosa si dissolve. Questi dipinti bianchi, realizzate sul lino, sono una combinazione di più aspetti della mia pratica e un buon esempio dell’evoluzione del mio lavoro, di quest’idea di abbandono: non un fallimento, semmai un riconoscimento dell’opportunità di dare per ricevere.
Presento anche delle sculture di barche, in grado di accogliere un solo passeggero, che fanno eco ai miei quadri. Appena vedo una scultura, ho sempre voglia di toccarla. Se vi capita di andare al Marfa, in Texas, appena la guida lascia il gruppo, la gente non può fare a meno di andare dalle sculture di Donald Judd…
Lei ha ispirato l’Education Lab di Hauser & Wirth Menorca, il risultato di una residenza per laureandi in seguito a una call lanciata alle Università spagnole. Perché per un artista riconosciuto è importante contribuire a un progetto che sensibilizza il grande pubblico all’arte?
Una delle cose che più mi hanno interessato come artista negli ultimi vent’anni è quella che chiamerei alfabetizzazione visiva. Le persone sono spesso in imbarazzo se devono parlare d’arte. Ebbene, io vorrei che questo cambiasse: chiunque può parlare di una trasmissione televisiva, di un film ma appena si tocca l’ambito delle arti visive, le stesse persone spesso pensano di non possedere un linguaggio adeguato, legittimo, e di conoscenze adatte a esprimersi.
Dobbiamo farla finita con questo. Penso che per il pubblico che non necessariamente ha l’ambizione di far parte del mondo dell’arte sia importante poter disporre di un vocabolario che gli permetta di sentirsi a suo agio per parlarne.
E quando si offrono opportunità come questa per portare i giovani a sentire, a scoprirsi parte di questa conversazione, e loro capiscono di potervi avere accesso, possono scoprire e condividere le loro riflessioni.
È un obiettivo incredibile e a lungo termine. Per questo motivo nello spazio educativo esponiamo i disegni realizzati dai bambini, ispirati dalla visita della mia mostra. Per me è davvero gratificante.
I progetti internazionali in corso da Hauser & Wirth «s’incentrano su tre pilastri fondamentali: coinvolgere le comunità, arricchire i programmi accademici e favorire un migliore accesso alle carriere artistiche grazie a collaborazioni significative». È un programma ambizioso che fa appello ad artisti, come nel caso di Mark Bradford all’inaugurazione dello spazio di Minorca, l’anno scorso. Lei ha avuto dei mentori che l’hanno guidata all’arte e che hanno svolto un ruolo determinante nella sua vocazione d’artista?
Non penso che ci sia un solo artista che non abbia avuto un mentore, qualcuno che abbia aperto il nostro spirito al processo. Assolutamente, alcuni artisti sono stati importanti per me sia come sostegno materiale che come sostegno critico alla mia carriera. Cito in particolare un artista morto pochi anni fa, Terry Adkins. Quando preparavo la mia prima personale, abbiamo parlato di ciò che avrei dovuto esporre: mi ha consigliato saggiamente su che cosa aspettarmi e soprattutto su quali aspettative avrei potuto suscitare.
Rispetto alla classica galleria in contesto urbano in che cosa si distingue esporre il proprio lavoro su un’isola, in una cornice naturale incontaminata, con tutto lo spazio e il tempo per poter davvero apprezzare le opere ?
L’Illa del Rei a Minorca è un luogo eccezionale. Penso che questo rafforzi il cambiamento che già aveva operato in me il progetto dello spazio di Hauser & Wirth Somerset, in Inghilterra. La cornice così come gli aspetti educativi derivanti dalla partecipazione di altri artisti, adulti e bambini costituisce una nuova tappa nella mia maniera di concepire le cose, l’opportunità di riconoscere quanto sia prezioso per me aprire nuovi orizzonti.
Gli artisti afroamericani sono stati molto valorizzati negli ultimi anni e la diversità è rappresentata più diffusamente nel mondo dell’arte e di questo bisogna rallegrarsi. Come vede questa evoluzione?
Credo che sia molto positivo dimostrarsi più inclusivi perseguendo questa logica. Vorrei che quello che succede oggi con gli artisti si estendesse fino a comprendere anche i galleristi neri, i conservatori, i direttori delle istituzioni. C’è stato un avanzamento, ma dobbiamo ancora fare strada in alcuni campi.
Come valuta l’evoluzione del suo lavoro?
Seguo il flusso di ciò che l’opera richiede, resto paziente e riflessivo. M’impegno in una conversazione con il progetto, rifletto su ciò che ho fatto in precedenza e su come il lavoro che farò in futuro continua e si evolve sulla base di ciò che è stato fatto in precedenza. Si tratta semplicemente di seguire la strada, di essere onesti e presenti.
Traduzione di Mariaelena Floriani