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Francesca Petretto
Leggi i suoi articoliAbbiamo veramente bisogno di definizioni fisse per le persone o di realtà inscatolate? Roni Horn (New York, 1955) è certa che possiamo farne a meno e sembra volerci dire che più lo facciamo, più le evitiamo (queste e quelle), più ci sentiremo liberi. «Molto prima che termini come “genderqueer” o “non-binary” entrassero nel discorso pubblico, spiega Yilmaz Dziewior, direttore del Museum Ludwig, Roni Horn stava già indagando sulle rappresentazioni fluide del genere. I suoi (auto)ritratti mostrano una persona che fluttua tra i generi senza bisogno di trovare una parola separata per questa modalità di esistenza. L’artista mostra le persone come organismi in costante trasformazione. Gli oggetti, le fotografie e i disegni di Horn, pur essendo estremamente ed esteticamente precisi, possiedono un potere liberatorio ed emancipatorio, proprio perché sono spesso difficili da afferrare e sfuggono a definizioni chiare».
È proprio il Ludwig, generosamente supportato, tra gli altri, da Peter und Irene Ludwig Stiftung, Gesellschaft für Moderne Kunst am Museum Ludwig, Galleria Hauser & Wirth, Glenstone Foundation e Kukje Gallery, a ospitare dal 23 marzo all’11 agosto (a cura di Dziewior con Kerstin Renerig e Leonore Spemann) l’imperdibile antologica dell’artista statunitense, il cui titolo, «Give Me Paradox or Give Me Death», si rifà a Patrick Henry, esponente di spicco del movimento indipendentista americano del XVIII secolo, e a un suo discorso chiuso dalla celebre esclamazione: «Datemi la libertà o datemi la morte!». Se il patriota reclamava allora la libertà, Horn preferisce oggi il paradosso, e infatti di questo e della contraddizione, del tema del doppio, ovvero della coppia, ha fatto la questione centrale del proprio ormai ultraquarantennale lavoro artistico. Con le sue opere infatti cerca sempre di mostrare la diversità nella natura di una persona o di un oggetto, sviluppando un concetto di identità come qualcosa di continuamente mutevole.
Una strategia artistica che Horn utilizza per esprimere questo concetto è l’accoppiamento di motivi fotografici simili ma non identici, come nella serie «This is Me, This is You» (1997-2000) che apre la mostra, o di sculture che qui comprendono opere della serie «When Dickinson Shut Her Eyes» (1993-2008), con al centro i versi della celebre poetessa americana, «Gold Field» (1980-94), composta al 99,99% da foglie d’oro, e «Untitled (“The tiniest piece of mirror is always the whole mirror”)» (2022), un’opera in dieci parti realizzata in vetro fuso che riflette l’ambiente circostante.
Come Horn stessa ha spiegato in un’intervista del 1989: «Attraverso la condizione di essere doppia, la forma della coppia rifiuta attivamente la possibilità di venire vissuta come una cosa in sé». Il concetto si ripercuote anche in molti disegni della fine degli anni Settanta, in mostra per la prima volta, e in una selezione di illustrazioni a colori create tra il 1983 e il 2018. Infine tra le altre opere fotografiche esposte vanno ricordate l’innovativo lavoro «Still Water (The River Thames, for Example)» (1999), che crea un ritratto in 15 fotografie del Tamigi nel sud dell’Inghilterra, «a.k.a.» (2008-09), una serie che mostra l’artista in vari momenti della sua vita, e «Portrait of an Image (with Isabelle Huppert)» (2005-06), con istantanee in cui l’attrice francese appare in vari suoi ruoli cinematografici.
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