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Alessandro Martini, Maurizio Francesconi
Leggi i suoi articoliPer gentile concessione dell’editore Einaudi, pubblichiamo un estratto del libro Storie di tennis. Campioni, partite e bizzarrie dello sport più bello del mondo (pp. 406, 2025, € 19). Riproduciamo qui il capitolo «Sulla tela: Carrà, Morandi, Balla e gli altri», contenuto nella sezione «Arte fra le arti».
“A chi ritiene, con buone ragioni, in effetti, che l’arte del Novecento non abbia dedicato al tennis la meritata attenzione, l’attività di Carlo Carrà (1881-1966) non può non suscitare un repentino ripensamento. Sono numerosi infatti i suoi dipinti in cui compaiono tennisti e tenniste, e soprattutto racchette delle più diverse fogge. Quasi sempre si tratta di una singola figura ripetuta, che si presenta come inquietante manifestazione di una simbologia ignota ai più. Tra le opere imperdibili, per ogni appassionato di arte e insieme di tennis, sono La musa metafisica (1917, oggi alla Pinacoteca di Brera a Milano), L’ovale delle apparizioni (1918, Galleria nazionale d’Arte moderna, Roma), La figlia dell’Ovest (1919, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, Düsseldorf) e Il figlio del costruttore (1917-21, collezione privata). Al di là di una reciproca somiglianza evidente al primo sguardo (in particolare le prime due, che vedono protagonisti dei manichini bianchi in abito da tennista, con una racchetta in pugno), si tratta di opere accomunate dalla cronologia, tutte realizzate tra il 1917 e il 1921, e dal luogo di realizzazione, Ferrara. È proprio nella città di Bassani e dei Finzi-Contini che Carrà soggiorna in quegli anni, ricoverato dopo l’esperienza, psicologicamente devastante, del fronte durante la Prima guerra mondiale. È qui, in particolare, che conosce Filippo de Pisis e soprattutto Giorgio de Chirico. Con loro condivide i principî della pittura metafisica e il motivo prediletto della racchetta, che De Chirico utilizza come testa nei suoi «manichini». Città metafisica per eccellenza, quasi sospesa nel tempo e nella storia, Ferrara era stata la città natale di Antonio Scaino da Salò, che sempre qui (forse non a caso) fin dal Cinquecento aveva codificato le regole del tennis «moderno» nel suo Trattato del giuoco della palla, pubblicato a Venezia nel 1555. Negli stessi anni il suo amico monsignor Giovanni Della Casa metteva mano, nell’abbazia di Sant’Eustachio di Nervesa, al celeberrimo Galateo overo De’ costumi.
Ma torniamo alle atmosfere suggerite da Bassani nel suo romanzo e rappresentate dal mondo dell’arte. La sovraccoperta del 1962 del Giardino dei Finzi-Contini riporta l’olio su tela Nu couché bleu, opera del 1955 di Nicolas De Staël: un nudo femminile nei toni del blu, languidamente reclinato su uno sfondo bianco e rosso. Ma è all’interno della prima edizione che compare Campo di tennis, una tavola in fototipia che riproduce l’acquaforte di Giorgio Morandi del 1923: un campo da gioco senza giocatori immerso in un algido languore. È la stessa opera riprodotta sul manifesto pubblicitario, realizzato dall’editore Einaudi in occasione della terza edizione del romanzo: «10mila copie in dieci settimane». Pur rappresentando il campo da tennis ai Giardini Margherita di Bologna, città natale di Morandi, viene pubblicata come perfetta raffigurazione del campo privato narrato nel romanzo, con la sua Hütte, capannina, e il taglio della luce radente di fine giornata. Una situazione suggerita anche da un’altra opera che, a distanza di anni, Bassani e l’amico Gianni Clerici considerano ancora più evocativa della copertina originale: è l’olio su tela Partita di tennis, realizzato nel 1913 dal toscano Luigi Gioli, poi nella Collezione Clerici. Osservandola, pare che Bassani abbia commentato, entusiasta: «Guarda qui, qui c’è Micol, con la sua bandana rossa e la sua racchetta, e di fronte la sua avversaria, forse Adriana Trentini, in azzurro. Questa era proprio l’ideale» (citato in G. Clerici e M. Naldi, Il tennis nell’arte, Mondadori, 2018). Un campo da gioco di color grigioazzurro, illuminato da piccole macchie di sole. Un grande albero ombroso, una capanna per il ricovero degli attrezzi. Un ampio cielo luminoso. Al centro le due figure immobili, in attesa dell’avvio del gioco.
Pochi anni più tardi, in pieno Secondo Futurismo, è Giacomo Balla a catturare il dinamismo dell’azione sportiva e a tradurlo in una fantasmagoria di colori. Giuoco di tennis viene esposta alla Mostra degli amatori e cultori di Roma nel 1928, e l’anno successivo Balla è tra i firmatari del Manifesto dell’aeropittura futurista. In Tennis + Paesaggio (nelle due versioni del 1920 circa e del 1928) ritrae una giocatrice vestita di giallo, nel momento del lancio della palla. Sullo sfondo del campo e della rete, perfettamente futurista è la rappresentazione del movimento della racchetta, cosí simile alle prime trasposizioni in pittura della velocità dei corpi e delle macchine che tanto aveva appassionato fin dai primi anni Dieci lo stesso Balla e soprattutto Umberto Boccioni, che però si dedica a rappresentare numerosi sport (come dimostra, tra le altre, Dinamismo di un ciclista del 1913), ma non il tennis. Peccato.
Un perfetto equilibrio tra stilizzazione e dinamismo è la coppa in ceramica policroma intitolata Tennis, parte della serie Gli sport. A realizzarla è un vero genio dell’architettura, del design e dello stile come Gio Ponti, nel periodo in cui è direttore artistico della Società ceramica Richard-Ginori, dal 1923 al 1933. La sua produzione di questi anni, ancora oggi sogno (spesso proibito) di molti collezionisti, è varia e colorata, non di rado ironica, sempre elegantissima. I tennisti ritratti, seppur difficilmente riconoscibili, sono due campioni internazionali come Bill Tilden e la divine Suzanne Lenglen. Il tennis è una passione che accompagna Gio Ponti anche nella quotidianità, addirittura nel suo abbigliamento. C’è chi lo ricorda come «l’architetto in scarpe da tennis»: le indossava ogni giorno, anche con il completo elegante e con le giacche che si disegnava lui stesso, piene di tasche in cui accogliere penne e matite colorate, gli strumenti del suo mestiere. Passano pochi anni e un altro artista italiano, Massimo Campigli, fornisce una sua personalissima interpretazione del gioco in due diverse versioni della stessa opera, Donne che giocano al tennis. Nella prima del 1943 (oggi nei Musei Vaticani) la raffinata archeologia contemporanea dell’artista compone un insieme di figure ieratiche, influenzate da modelli egiziani, etruschi, pompeiani. Due di loro, con gonne lunghe fino ai piedi, impugnano racchette da gioco e, seppur immote, sembrano impegnate in un gioco vagamente irreale. Nella seconda del 1947 (alla Gam di Torino) pose e gesti sono ugualmente ritmati in spazio e tempi sospesi, ma è altrettanto chiaro l’avvio dell’azione ludica. Quasi un gioioso ritorno alle origini”.
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