Karin Gavassa
Leggi i suoi articoliDal 19 marzo al 2 giugno alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo viene presentata l’opera video «What the Owl Knows» (2022) di The Otolith Group, il duo artistico fondato a Londra nel 2002 da Kodwo Eshun e Anjalika Sagar. Si tratta di un’opera multistrato, densa di riferimenti, livelli, rimandi. «What the Owl Knows» nasce dall’amicizia profonda tra la pittrice e scrittrice Lynette Yiadom-Boakye (Londra, 1977) e The Otolith Group: l’opera disarticola il lavoro della pittura soffermandosi sui dettagli e sui frammenti, ma non ne rivela l’intera complessità, come se lo spettatore si trovasse di fronte a una tela di cui non si vede l’estensione. La ricerca di Kodwo Eshun e Anjalika Sagar trae spesso origine da lavori esistenti di compositori, produttori, musicisti, poeti, teorici e pittori, con l’obiettivo di riconfigurare le relazioni intertemporali tra passato, presente e futuro, invitando i visitatori a ripensare un diverso rapporto con il tempo.
Si tratta, come afferma The Otolith Group, di «rinarrare gli orizzonti di aspettativa che informano la struttura temporale dell’esperienza e che mirano a regolare la presenza dell’artista di colore all’interno della novità del presente. Se questo comporti la costruzione della scala dell’intertemporale o del transtemporale o dell’eterotemporale è da determinare in base al lavoro da svolgere».
La loro pratica post cinematografica invita ad ascoltare il video come una coreografia di immagini in movimento, in cui il presente diventa un’esperienza storica in direzione di un futuro atteso, in cui, aggiungono gli artisti, «la forma e la forza del video [sono impiegate] per sospendere la richiesta del documentario di fornire allo spettatore la soddisfazione della spiegazione biografica del lavoro del cosiddetto artista di colore. Nello spazio aperto dalla frustrazione dell’aspettativa di ottenere una spiegazione, la capacità del linguaggio poetico di creare figure di pensiero diventa disponibile per il video. Il video utilizza la dimensione abissale del linguaggio poetico per intraprendere un dramma che “defamiliarizza” l’immagine del pensiero per concentrare l’attenzione sulle forme di studio visivo praticate dagli artisti coinvolti».
L’idea di Otolith (piccoli sassolini che si trovano nel cranio dei pesci e servono a fornire l’orientamento in base alle cellule sensoriali) si articola con l’idea di Gruppo, aprendosi alla produzione collettiva e rompendo con l’idea di artista al singolare e con il concetto di autorialità. Come si riflette questo tema nella vostra produzione in termini di metodologia ed estetica?
Le idee del primo non si traducono immediatamente nel metodo o nell’estetica del secondo. Questo è un altro modo per dire che il Gruppo Otolith non sa quale sarà la relazione tra ciascuna di queste idee prima della realizzazione dell’opera stessa. Parte del punto e dello scopo è abitare il processo immanente in cui ogni metodo emerge nel e attraverso il lavoro di realizzazione. Ciò significa che le operazioni estetiche che mettiamo in atto per ogni opera emergono in modo prospettico, se non addirittura prolettico, piuttosto che retrospettivo».
È una reazione contro l’individualismo nel campo dell’arte e nella nostra società in generale?
Per noi non si tratta di reagire all’individualismo, ma di inventare dei modi per spostare la domanda articolata da tutti i tipi di istituzioni per le certezze di identificazione e le soddisfazioni di riconoscimento fornite dal genere del cosiddetto artista di colore.
Sempre dal 19 marzo, ma fino al 13 ottobre, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo ospita altre tre mostre. «Fly on the Wall», prima personale in Italia di Danielle McKinney (Montgomery, Alabama, 1981), propone un ciclo di dipinti realizzati appositamente dall’artista per l’occasione, insieme a una ristretta selezione di lavori già esistenti.
Prima personale in Italia anche quella di Mohamed Sami (Baghdad, 1984), «Isthmus», che presenta un nuovo ciclo di dipinti, esplorazione del rapporto tra pittura contemporanea e memoria episodica. I dipinti hanno composizioni volutamente stridenti: sempre disabitate, le inquadrature rivelano solo dettagli parziali di una scena, in cui la pennellata di Sami si espande fino a materiali di uso quotidiano mescolati alla pittura, come sabbia e vernice spray.
Infine, «Je Vous Aime», prima mostra personale di Diana Anselmo, artista e performer sordo, a cura di Bernardo Follini. Un’indagine sulla relazione tra il precinema e la storia di oppressione della comunità sorda. L’artista espone e manipola immagini e documenti d’archivio dell’Institut National des Jeunes Sourds, in dialogo con una nuova produzione video, realizzata attraverso il visual sign, forma poetica propria delle lingue dei segni, con una meticolosa costruzione fisica di immagini.
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