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«Wait for Walk - 48th St./5th Ave» (2005) di Florian Böhm (UniCredit Art Collection, HypoVereinsbank). © Florian Böhm

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«Wait for Walk - 48th St./5th Ave» (2005) di Florian Böhm (UniCredit Art Collection, HypoVereinsbank). © Florian Böhm

UniCredit vende il «patrimonio condiviso»

La collezione d’arte del gruppo bancario è una delle più importanti al mondo. Perché questa decisione? Altre banche decideranno di emularla?

Maria Elena Santagati

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È passato quasi sotto silenzio un annuncio invece per molti versi epocale. Il gruppo bancario UniCredit mette sul mercato, totalmente, la sua grande collezione di opere d’arte, la più ampia del mondo a livello corporate. L’operazione è fortemente voluta dall’amministratore delegato, il francese Jean-Pierre Mustier. Generata a fine anni ’90 dalle raccolte formatesi nei secoli dalle banche italiane, dai profondi radicamenti locali, che sono state aggregate intorno al Credito italiano (Rolo Banca, Cariverona, Banca Crt di Torino, Cassamarca, CrTrento e Rovereto, CrTrieste), incrementata da nuclei costruiti scientificamente dalla tedesca Hvb-Hypovereins, dall’austriaca Bank Austria, dalla turca Yapi Kredi, realtà acquisite da UniCredit nella sua svolta internazionale nel 2005, la collezione conta oltre 60mila opere, dai reperti mesopotamici alla più stretta contemporaneità.

Non strettissima, in quanto dal 2011, salvo sporadici acquisti, è al palo la campagna strategica di acquisizioni e committenze varata con il progetto «UniCredit & Art» agli inizi degli anni 2000 per rileggere il patrimonio nella contemporaneità. Un progetto visionario che aveva connotato il gruppo come apripista per l’Italia nel posizionamento sulla promozione della giovane arte e nella modalità di dialogo con i territori. UniCredit, per primo, varando una nuova stagione, ha trasformato le sponsorizzazioni passive, di visibilità del logo, in vere e proprie partnership, alleanze con le università, con i musei, con l’apertura del Padiglione nazionale del 2007 della prima Manifesta in Italia.

Un percorso con produzioni congiunte entrate in comodato di realtà come il Castello di Rivoli, il MaXXI, il MAMbo, il Mart. Dall’Italia nel mondo, nei Paesi di influenza del gruppo. Oltre dieci mostre in tour in importanti musei. Ricordiamo solo la prima, «Past Present Future» per Istanbul Capitale Europea della Cultura, prodotta con una struttura composta da eccellenti giovani, creando competenze, policy e job a standard ministeriali, prima inesistenti. Una produzione editoriale densa con cataloghi, prime monografie di artisti, collane editoriali pluriennali con Skira dedicate all’arte del XX secolo e alla fotografia hanno segnato un decennio glorioso che ha creato tendenza ed epigoni. Un impegno acceso dalla pubblicazione, a cura del gruppo, dell’impietosa analisi sull’arte contemporanea italiana nel mondo condotta dell’economista della Cultura Walter Santagata con i Ministeri degli Esteri e della Cultura che dava l’Italia assente dalla mappa globale. Con la volontà di affermare, partendo dalla propria realtà, il ruolo centrale della cultura per alimentare la produzione di pensiero, di dialogo tra diversità, necessaria per lo sviluppo sociale ed economico, l’allora amministratore delegato Alessandro Profumo, con il direttore della corporate identity Pier Luigi Celli, guru del management, e la guida manageriale di Catterina Seia, aveva scelto una commissione scientifica di giovani curatori, oggi diventati riferimento, come Luca Massimo Barbero e Walter Guadagnini, che l’ha presieduta.

A quest’ultimo si deve il forte focus sulla fotografia, la creazione della prima collezione istituzionale privata in Italia su questo linguaggio, che già nel 2006 rappresentava il Paese a Paris Photo. Una collezione di 4mila opere, con un nucleo di oltre 400 dalle origini agli anni Settanta, stabilmente ospitato al Museum der Moderne di Salisburgo. La grande crisi del 2010 e l’uscita dei leader dal gruppo hanno raffreddato gli entusiasmi dell’azienda, ma la grande stagione aveva lasciato segni. Il Paese si era messo in moto. E sul sito della banca si legge ancora che la collezione è «patrimonio condiviso», «espressione di identità» di UniCredit, della sua storia, della capacità di crearne una nuova, una cultura d’impresa europea.

L’identità è un processo evolutivo e oggi la collezione è in vendita. Dal comunicato UniCredit si legge che i fondi ottenuti dal disinvestimento totale delle opere d’arte (dal quale il gruppo ricaverà consistenti plusvalenze) serviranno per finanziare operazioni di «Social Impact banking», ovvero per sostenere persone, imprese ed enti del Terzo Settore orientati a un impatto sociale positivo, con prestiti di microcredito e «impact financing». Questa linea di business che il gruppo ha aperto in Italia lo scorso anno sta ottenendo risultati promettenti e verrà estesa ad altri dieci mercati europei (Austria, Germania, Serbia, Ungheria, Bulgaria, Romania, Turchia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bosnia ed Erzegovina), «per generare ritorni economici coniugati a benessere sociale e contribuire allo sviluppo delle comunità in cui opera».

Per questo sviluppo UniCredit ha approvato 72,9 milioni di euro di finanziamenti, microcredito e processi formativi che sosterrà, come dichiarato da Mustier, con «un graduale processo di vendita delle nostre collezioni d’arte, ne doneremo alcune ai musei locali e investiremo sui giovani artisti», ma nel contempo evidenzia che il settore non viene più considerato strategico. Abbiamo già visto incanti di opere d’arte nel periodo della disfatta dei colossi della finanza. Come non ricordare la celebre vendita di Sotheby’s a New York della collezione Lehman Brothers nel 2010 che aveva sgonfiato il «sistema dell’arte». Ma se era naturale e atteso il riordino con vendite della raccolta UniCredit pervenuta da stratificazioni geologiche, dalle visioni di vertice che hanno animato le banche di provenienza nei secoli, ciò che sorprende, oltre all’assordante silenzio, è che un gruppo solido, non minacciato dal rating, decida di azzerarla.

Certo è che, con le dinamiche del mercato dell’arte internazionale in crescita, saranno sufficienti poche decine di pezzi per raggiungere la cifra di 72,9 milioni di euro, utile a finanziare le esigenze espresse per il social impact banking. Tintoretto, Andy Warhol, Giorgio de Chirico, Baselitz, Richter, Klein, Schwitters, solo per citare alcuni nomi milionari. Non è nota la casa d’aste che si aggiudicherà la vendita monstre. Pare che l’ottimo servizio di «art advisory» del gruppo, tra i più strutturati del mercato «per consolidare e incrementare il valore delle collezioni» dei clienti private banking, non sia coinvolto al fine di evitare conflitti di interesse. Questo passo è in linea con azioni già avviate. Il gruppo italiano, oggi paneuropeo, diventerà altro.

A maggio scorso UniCredit ha ceduto il «Pavilion», edificio simbolo, sede a Milano di mostre e relazioni con la comunità, progettato da Michele De Lucchi per la piazza Gae Aulenti dove la banca ha il suo headquarter nelle torri. Oltre 45 milioni di euro sono stati incassati da Coima Res che lo ha già ceduto in affitto al gruppo Ibm che ne farà la sua sede e punto retail. Il 2019 sarà probabilmente l’anno della grande fusione europea. Per la prima volta presentando i conti della semestrale 2018, Mustier ha annunciato che valuterà le opzioni di crescita esterna. Rumors indicano dialoghi con Société Générale, Abn Amro e l’inglese Lloyds Bank.

Molte domande rimangono aperte. L’investimento corporate ha un peso sul mercato dell’arte. Altri istituti decideranno di emulare UniCredit? Qual è la vera ratio del «sacrificio» di un’identità per un business sociale che dal primo anno di attività si sostiene autonomamente? Dove andrà il corpus unico di 28 opere del Realismo magico di Antonio Donghi che hanno continuato a interrogarci sulla banalità del quotidiano, sollecitando lo sguardo su altre realtà, stranianti? Provenivano da un’escussione di un prestito della Banca di Roma, le abbiamo viste in grandi musei e passeranno ora di mano, disperse. Ma continuerà a essere a disposizione di tutti, salva grazie al vincolo della tutela, «La Quadreria» creata a Bologna nella seconda metà del novecento da Rolo Banca 1473 per la sua città sotto lo sguardo di Andrea Emiliani, appena scomparso. In un luogo iconico, Palazzo Magnani, sede della banca, intorno la spettacolare sala affrescata verso il 1590 da Annibale e Ludovico Carracci, sono arrivate opere di coloro che si sono ispirati ai Maestri, rendendo il Seicento, «il secolo d’oro» emiliano, come il Dosso Dossi, posto dall’Ariosto nel suo Orlando Furioso accanto alle grandi opere del passato e dei suoi tempi moderni fino ad arrivare a Giorgio Morandi. Perché l’arte, condivisa come risorsa, ha un ruolo sociale. È Comunità.

«Wait for Walk - 48th St./5th Ave» (2005) di Florian Böhm (UniCredit Art Collection, HypoVereinsbank). © Florian Böhm

Maria Elena Santagati, 15 aprile 2019 | © Riproduzione riservata

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