Brian Dillon
Leggi i suoi articoliNell’inverno del 1971, la rivista «The Village Voice» pubblicò un piccolo annuncio della mostra di Yoko Ono (Tokyo, 1933) al MoMA di New York. L’artista produsse un catalogo e nelle fotografie dell’epoca la si può vedere in posa con alcune opere fuori dal museo. C’è solo un problema: questa mostra non esisteva. Il catalogo si intitolava Museum of Modern (F)art.
Nel cortometraggio dell’artista giapponese «The Museum of Modern Art Show» (1971), diversi visitatori delusi o ignari vengono intervistati e sembrano piuttosto divertiti riguardo alla sua mostra fantasma, che aveva costretto il MoMA ad attaccare una copia della pubblicità del Voice alla reception con una nota scarabocchiata: «Non è qui». La trovata di Yoko Ono è sicuramente «discutibile», dice nel cortometraggio un frequentatore del museo, ma secondo un altro l’artista è anche «più intelligente di John [Lennon]». Una reazione sorprendente, perché è difficile pensare a un’artista più costantemente derisa, invidiata e travisata. Riuscirà la retrospettiva (molto reale) aperta fino al primo settembre nella Tate Modern di Londra e curata da Juliet Bingham e Patrizia Dander a rendere giustizia allo strano viaggio di Yoko Ono tra la celebrità dell’avanguardia e una sorta di fama selvaggia e vuota?
La mostra «Yoko Ono: Music of the Mind», il cui titolo deriva dai concerti dell’artista a Londra e Liverpool nel 1966 e nel 1967, si apre con opere che sembrano affidarsi alla presenza centrale e alla personalità laconica della protagonista. In «Eye Blink (Fluxfilm No. 15)» (1966), il suo occhio sinistro si chiude e si apre in un primo piano al rallentatore in bianco e nero. Le espressioni facciali sono sufficienti per riconoscerla e immaginare di trovarsi di fronte, per due minuti e 40 secondi, a qualcosa di simile ai ritratti cinematografici dello «Screen Test» di Andy Warhol, iniziato un paio di anni prima. Una gara di sguardi, in altre parole, tra il soggetto e il medium, una prova di auto-possesso e carisma.
In sottofondo, quando si entra nella mostra, c’è «Telephone Piece» (1964): un ricevitore che squilla e poi una voce: «Pronto, sono Yoko». È proprio così; ma in un certo senso, come nel film, lei non c’è quasi per niente, o è del tutto assente. Questi non sono autoritratti. Nel suo lavoro migliore di questo periodo tutto è subordinato all’azione, non all’espressione.
I verbi sono il fulcro dei film, dei testi e delle performance del primo decennio circa della carriera di Yoko Ono. Nella prima sala, «Film No. 1 (Match)» (1966) mostra un fiammifero che viene acceso e divampa: una fiamma liquida, di nuovo al rallentatore, con echi visivi degli studi fotografici di Harold Edgerton sul movimento e più di un accenno all’orrore della bomba atomica (Yoko Ono aveva 12 anni, sfollata in montagna, quando furono sganciate le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki).
Il film è affiancato da fotografie che la ritraggono al Sogetsu Art Centre di Tokyo nel 1962: seduta sul palco davanti a un pianoforte, accende un fiammifero e una sigaretta, con lo sguardo basso. «Lighting Piece» risale al 1955, quando l’artista si era trasferita negli Stati Uniti e studiava poesia e composizione al Sarah Lawrence College di New York. Nella sua prima versione consisteva in una semplice istruzione: «Accendi un fiammifero e guarda finché non si spegne».
L’audacia, l’arguzia, la poesia delle istruzioni di Ono, molte delle quali raccolte nel libro Grapefruit del 1964, risiedono nelle azioni minime prescritte. Al limite, come in una sequenza dedicata al compositore La Monte Young, le istruzioni possono ridursi a una sola parola: sbirciare, strofinare, toccare, sbucciare, strappare.
Alla Tate Modern, la povertà testuale e la profusione materiale di queste opere (linee e griglie di istruzioni dattiloscritte, a volte scritte a mano in caratteri giapponesi) potrebbero facilmente dare l’impressione di una Yoko Ono austera ma ironica concettualista. Le fotografie delle sue performance, insieme a collaboratori come Young o John Cage, sono spesso composte in modo così freddo che si può avere un’idea fuorviante di controllo (alcune delle immagini più belle sono state scattate dal suo sodale Fluxus George Maciunas: fotografie dei dipinti effimeri della Ono, sei studi scuri e quasi astratti del suo «Bag Piece» rimesso in scena nel 1965). Se si legge o si guarda più da vicino, appaiono altri livelli di varietà e umorismo anticonformista, una frivolezza che alla fine non riuscirà a salvare il suo lavoro dal sentimentalismo.
L’equilibrio tra poesia e commedia è quasi perfetto in un’opera come «Snow Piece» (1963), con la sua istruzione di «registrare il suono della neve che cade. Questo dovrebbe essere fatto la sera». «Snow Piece» ha poi dato origine a «Soundtape of the Snow Falling at Dawn», che deve essere riprodotto a «qualsiasi velocità». Laddove la composizione «4’ 33’’» di Cage intendeva fomentare un sottile tumulto di suoni in mezzo al silenzio, il gesto giocoso di Ono si rivolge verso l’interno: la musica della mente.
Talvolta questa mostra rivela un’artista che non ci si poteva immaginare. Opere famose appaiono più deboli. Prendiamo «Cut Piece», la sua opera più famosa (al di fuori di alcune collaborazioni musicali). La versione in mostra è stata filmata dai documentaristi Albert e David Maysles nel 1965 alla Carnegie Recital Hall di New York. L’artista inginocchiata e implacabile; primi piani di forbici e cronometro; breve inquadratura del pubblico; un sottofondo di risate; piccoli e timidi tagli ai suoi vestiti da parte delle donne, seguiti dal sorprendente assalto di un uomo a ciò che resta. «Cut Piece» conferma la sua reputazione (uno studio impavido sull’abiezione e la misoginia) finché non ci si ricorda che Yoko Ono aveva previsto anche una versione in cui gli spettatori si accanivano con le forbici.
Le sue provocazioni più famose sono spesso accompagnate da alternative comiche ed eccessive. Per questo motivo non è del tutto esatto affermare che l’arte di Yoko Ono sia degenerata nel capriccio o nella banalità alla fine degli anni Sessanta, all’incirca nel periodo in cui iniziò la sua relazione con John Lennon. Il loro film «Fly» (1970) rimane una sgargiante vanitas, una sgradevole risposta swiftiana al languore di «Sleep» (1964) di Andy Warhol. Come ci ricorda una piccola sala d’ascolto con cuffie e copertine di album, i dischi realizzati come Plastic Ono Band e come duo sono a volte audaci come qualsiasi altra cosa nel canone del noise-rock.
Ma il progetto «Acorn Peace» (1968) della coppia, che inviava ghiande ai leader mondiali nella speranza di orientarli verso la pace, stabilisce il tono del lavoro successivo di Ono e delle ultime sale della Tate Modern. Una barca bianca per i rifugiati, da istoriare o decorare da parte dei visitatori. Un invito a descrivere la propria madre. Porzioni di «cielo» in elmetti tedeschi rovesciati. L’ultima opera della mostra, tuttavia, è un video di una performance del 2013, quando Yoko Ono aveva 80 anni: un sussurro-urlo che ricorda quanto severa, per non dire eroica, potesse essere un’artista.
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