Angela Vettese
Leggi i suoi articoliOggi 30 agosto è morto il gallerista milanese Pasquale Leccese. Lo ricorda la critica d’arte Angela Vettese.
Pasquale Leccese non c’è più dal 30 agosto. Ci mancherà questo giullare dei mercanti, serio e faceto, mascherato da gallerista ma, in effetti, pensatore e artista.
Aveva lo sguardo clinico del suo maestro, il gallerista Franco Toselli di cui fu a lungo assistente, la professionalità di Monica Sprüth, madre dei suoi due figli e gallerista tedesca, e tutto ciò che aveva preso dagli artisti che amava: la lucidità intelligente di Alighiero Boetti, l’impegno civile di Marlene Dumas, la consapevolezza di come funzionava il sistema dei desideri indotti dall’accoppiamento narcisismo-capitalismo di Sylvie Fleury, il nichilismo giocoso di Fischli & Weiss, il gusto del feticcio mediatico di Richard Prince… e troppe altre sfaccettature per ricordarle tutte.
Era un uomo complesso e colto, attaccato alla sua Puglia (i suoi trulli con piscina a Cisternino erano un paradiso) ma cittadino del mondo. Per questo, forse, dopo gli esordi come gallerista indipendente avvenuti a Milano in società con Alessandro Seno, si stancò di lavorare per un pubblico sempre uguale, anche troppo selezionato ed elitario. Sempre tenendo la sua base a Milano, nonostante i frequenti soggiorni in Germania con la famiglia, dopo gli anni Novanta ha preferito cercare di volta in volta luoghi nuovi e stimolanti per fare esporre i suoi artisti prediletti.
Non cercò più contratti in esclusiva, gli fu sufficiente poter scegliere sempre i nomi su cui puntare senza compromessi commerciali. Vendeva piccole cose che con il tempo sono diventati oggetti di culto, come le donne nere di Chris Ofili e i ritratti liquidi di Marlene Dumas. Fu lui ad aiutarmi, a Venezia nel 2003, nell’organizzare la prima solo show pubblica in Italia dell’artista, come mi aveva aiutato nel 1992 per portare le geografie utopiche di Peter Fend nella mostra romana «Molteplici Culture».
Nel tempo, si era autoridotto per scelta in una galleria piccolissima che gli serviva da ufficio, da confessionale, da rifugio, da magazzino per i buffi materiali che usava nelle sue performance pubbliche: si accomodava infatti negli angoli più assurdi delle città con un giornale in mano, un quadro appresso, una latta di colore e altri oggetti semplici ma simbolici, per poi lasciare sapere al mondo, attraverso i social, che quello era il suo nuovo ufficio.
E tutto questo aveva un senso preciso: la Milano degli anni Ottanta, in cui aveva esordito, prometteva di tutto ma mantenne ben poco per l’arte contemporanea: non un museo dedicato, non direttori e curatori all’altezza, non un budget pubblico che sostenesse l’attività dei privati. C’è chi volitivamente è riuscito anche in queste condizioni, ma a patto di aprire sedi all’estero, almeno a Londra e a Parigi. Milano non ha alcuna identità, alcun prestigio, alcun orgoglio della propria storia e quindi, per ora, non è attraente per gli artisti migliori, tranne che per esposizioni in istituzioni private ben gestite.
Pasquale ne aveva preso atto. Portava anche solo per qualche giorno il meglio del meglio, con i fondi che poteva investire. E basta. Ovvio che in tutto questo c’era anche una critica più casta al sistema dell’arte contemporanea, di cui sapeva di far parte ma con i cui vizi, trucchi, giochi pericolosi aveva progressivamente cessato di farsi complice. Scafato come un satiro, era anche, davvero, un puro di cuore, un vero amante dell’arte che a noi, più o meno suoi coetanei, ha insegnato moltissimo. Speriamo che la sua disperata affezione per il lato pensante dell’arte, quello meno speculativo e più profondo, arrivi anche alle generazioni più giovani e smuova un Paese che non aveva mai cessato di amare.
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