Già nei suoi primi lavori Jigger Cruz (nato nel 1984 a Manila, Filippine, dove vive e lavora) si serviva del procedimento della stratificazione, teso allora soprattutto al nascondimento. Dipingeva minuziosi paesaggi che sembravano uscire dall’atelier di qualche antico pittore del Nord Europa e poi li ricopriva in gran parte, fino a renderli irriconoscibili, con elementi astratti realizzati con la materia densa e pastosa della pittura a olio. Li snaturava, così come violava, e talora addirittura distruggeva, le cornici barocche che si procurava per i suoi dipinti. Si trattava, ai suoi occhi, di una sorta di rituale di affrancamento, di emancipazione dalla cultura visiva coloniale spagnola, che con le sontuose ridondanze del suo barocco aveva oscurato la tradizione artistica della sua terra. Da qualche tempo non è più così, perché Jigger (uno degli artisti filippini oggi più affermati sul piano internazionale) sembra aver trovato una propria nuova dimensione in dipinti che veri dipinti non sono, per via della sovrapposizione dei piani e della tridimensionalità degli elementi costitutivi, ma che nemmeno si possono dire sculture, sebbene siano composti da forme astratte sovrapposte le une alla altre, da lui realizzate con la pittura a olio trattata con speciali accorgimenti e fatta asciugare con tempi diversi, e poi assemblate in complesse composizioni.
Composizioni dalle quali è svanita ogni forma di figurazione e alle quali non serve nemmeno più la presenza della cornice: è un messaggio di rinascita il suo, di positività, che trova voce nella mostra «Jigger Cruz. To the Walls from the Wound of Oddities», presentata dal 18 luglio al 17 settembre da Primo Marella Gallery a Milano, che già aveva esposto il suo lavoro una quindicina d’anni fa. Sperimentatore appassionato («Amo la sperimentazione, gli incidenti, il fallimento nel fare qualcosa che non è venuto bene... è comunque bello»), con la personalissima tecnica che ha inventato Jigger crea forme amebiche e mutanti dall’aspetto solo vagamente biomorfo ma anche nastri, larghe fettucce, dischi, spesso a loro volta decorati con motivi astratti, realizzati con null’altro che la pittura a olio, e li dispone in modo da formare calibrate composizioni tridimensionali ritmate da vuoti e da pieni, da ombre e da luci, e accese da colori tropicali. Confermandosi così nel suo ruolo di protagonista della giovane arte filippina, affermatasi (dopo le figure pionieristiche di Fernando Zobel e Alfonso Ossorio) con artisti oggi cinquantenni come Ronald Ventura, Annie Cabigting, Manuel Ocampo e Alfredo Esquillo.