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Rica Cerbarano
Leggi i suoi articoliCon il progetto «Frammenti», in mostra a Fotografia Europea fino all’8 giugno, Karla Hiraldo Voleau indaga le vite e le relazioni affettive degli adolescenti italiani. L’artista ha attraversato l’Italia per costruire un ritratto contemporaneo della Generazione Z, affrontando temi come l’amore, la comunicazione interpersonale, l’influenza dei social media e il femminismo. In un società sempre più polarizzata, dove la violenza di genere è tangibile non solo tra gli adulti, ma anche tra i giovani, questo progetto si rivela particolarmente necessario. Attraverso la commistione di fotografie e parole, Hiraldo Voleau rivela uno spaccato profondo sull’adolescenza di oggi e sul possibile futuro della società italian; e, più in generale, di quella europea.
Partiamo dall’inizio. Come ha avuto questa idea?
Venivo da una serie di progetti molto personali, in cui avevo esplorato la mia identità, il mio corpo, la mascolinità, le identità di genere… Ma a un certo punto ho sentito il bisogno di guardare fuori da me, rimanendo sempre legata alla dimensione intima, alle storie personali, ma spostando il focus sugli altri. Mi piaceva l’idea di lavorare su questi temi con la Generazione Z, che ha vissuto la pubertà durante il Covid ed è cresciuta immersa nei social media. Volevo capire come tutto ciò abbia influenzato la comunicazione tra gli adolescenti di oggi, la loro vita affettiva e i loro rapporti. Grazie a un finanziamento di Pro Helvetia, ho passato del tempo a Roma nel 2022, dove ho imparato l’italiano, e mi sono lanciata nel progetto.
Perché ha scelto proprio l'Italia?
Tutto è iniziato dopo aver visto «Comizi d’amore» di Pasolini, qualche anno fa. Nello stesso periodo, stavo leggendo Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes. Con questi riferimenti iniziali, ho provato ad avviare il progetto a Parigi, ma collaborare con le scuole in Francia si è rivelato impossibile. Inoltre, trovo che in Italia ci sia una situazione politica più speciale, con l’avanzare dell’estrema destra e i valori che ne derivano. Così ho pensato che l’Italia fosse più adatta a ciò che volevo realizzare.
Come si è sviluppato il progetto?
Nei miei progetti c’è sempre un approccio sociologico. Mi interessa davvero la vita delle persone, quello che hanno da raccontare conta per me molto più del ritratto finale. Tutto parte dall’incontro, dalla conversazione. Quando arrivo nelle scuole, dopo aver raccolto le adesioni degli studenti, realizzo delle interviste individuali. Più mi immergo nel progetto, più riconosco quali sono i temi e i profili che mi interessano davvero. All’inizio ero più focalizzata sulla sfera sentimentale: gli appuntamenti, il linguaggio che usano gli adolescenti. Ma col tempo mi sono resa conto di essere più attratta dal loro punto di vista sulla società: dalle speranze che nutrono per il futuro, dai momenti cruciali della loro vita, come quando si innamorano, si lasciano, provano gelosia o si confrontano con il tema della possessività.
Nel confronto con gli adolescenti, ci sono state tematiche che sono emerse più di altre?
Sicuramente il bullismo e la depressione. Quasi tutti mi raccontano di aver attraversato periodi difficili. Nonostante le interviste che faccio siano brevi, solitamente bastano pochi minuti per arrivare subito a parlare di traumi profondi. Capita molto frequentemente, soprattutto con i ragazzi. Mi confidano subito segreti profondi, a volte pensieri oscuri. Forse è anche una questione di saper fare le domande giuste, e ormai credo di aver imparato come farle. Percepisco un bisogno forte di condivisione.
C’è qualcosa che l’ha sorpresa particolarmente?
La consapevolezza che molti di loro hanno delle cose brutte della vita, dei comportamenti sbagliati delle persone intorno a loro. Mi ha colpito anche la chiarezza con cui questa generazione osserva e interpreta le relazioni interpersonali. Mi chiedo: forse da adulti si perde il ricordo di com’era vedere il mondo a quell’età? Non so se anche noi eravamo così attenti, o se davvero questa generazione ha uno sguardo più lucido. Sono estremamente intelligenti, capiscono molto bene i loro genitori, sono critici nei confronti delle scelte e degli errori degli adulti. Hanno anche uno sguardo molto severo sulla dipendenza dalle tecnologie, soprattutto quella degli adulti. Meno sulla propria, ovviamente.

Karla Hiraldo Voleau, «Abbraccio, Rome», 2021. © Karla Hiraldo Voleau
Immagino che un tema importante sia stato anche il confronto con l’altro sesso e i rapporti affettivi.
Sì, credo che, alla fine, il vero obiettivo di questo progetto sia promuovere la necessità urgente di introdurre in modo serio l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole in tutta Europa, non solo in Italia. Quello che ho capito, è che anche se non tutti i ragazzi sono depressi o pensano al suicidio, tutti hanno bisogno di essere ascoltati, di un supporto reale, di strumenti per orientarsi nella complessità del mondo attuale. Questo significa anche aiutarli a gestire il mondo digitale, con tutte le sue derive pericolose in merito alla sfera affettiva: la cultura maschilista, la «rape culture», il «revenge porn», il «slut shaming», il bullismo online…
E questo vale per ragazzi e ragazze…
Se dobbiamo generalizzare, per i ragazzi si tratta di accompagnarli nel ridefinire la propria identità maschile. Molti si sentono confusi: non sono nel ruolo di dover provvedere alla famiglia come in passato, e allo stesso tempo iniziano a capire che la violenza non è una soluzione. Ma non sempre riescono a vedere alternative concrete, non capiscono davvero quali possono essere modelli diversi, non patriarcali. Per quanto riguarda le ragazze, c’è un dato che mi ha colpito molto: tra le circa 150 ragazze che ho intervistato, non ne ho trovata una che desiderasse diventare casalinga. Tutte vogliono lavorare, avere una carriera, essere indipendenti. Eppure, molte sognano anche una relazione stabile, la fedeltà, la costruzione di una famiglia «tradizionale». Non è certo la prima generazione a essere in piena esplorazione: come si concilia la vita familiare con i valori di una donna indipendente?
Mi sembra che il lavoro trovi le sue fondamenta più nelle parole che nelle immagini. Per chi vi ha preso parte è stato semplice capire che queste conversazioni facevano parte di un progetto artistico, o si aspettavano qualcosa di più «concreto»?
In realtà, a quasi nessuno importava davvero del risultato finale, della foto in sé. Cerco di presentarmi non come sociologa, non come ricercatrice e nemmeno come fotografa. Vorrei che passasse l’idea che l’arte può essere qualsiasi cosa si voglia che sia.
Veniamo all’output formale del progetto. Come ha sviluppato la mostra che ora è in corso a Reggio Emilia?
Il progetto, di per sé, ha un’estetica abbastanza semplice, per questo ho cercato di innovarlo soprattutto nella forma. Dopo aver scattato, ho trascritto a mano gli estratti delle interviste con una macchina da scrivere elettronica. Questo processo mi ha fatto capire quanto tempo richieda davvero questo lavoro. È un po’ come fare i compiti: leggere, selezionare, tradurre, riscrivere, comporre. E questo tempo lento, analogico – anche le fotografie sono scattate in pellicola – crea un contrasto forte con l’adolescenza che racconto. Un’età che oggi è vissuta in modo frenetico e accelerato dal digitale. C’è questo divario tra la velocità del loro quotidiano e la lentezza del mio processo artistico. Se penso alla mia adolescenza, per me è stata una fase quasi contraddittoria: da un lato caotica, travolgente; dall’altro, ricordo di non essermi mai sentita così annoiata in vita mia come in quel periodo. Ed è proprio quel contrasto che ho voluto restituire anche nella forma.
L’approccio artistico adottato è molto differente rispetto ai suoi lavori precedenti, che erano più performativi e autobiografici. Com’è stato per lei lavorare a questo nuovo progetto?
A volte mi chiedo: «Ciò che ho fatto è abbastanza provocatorio?». Siamo così abituati a pensare che un progetto, per essere valido, debba colpire, scioccare… E forse lo penso ancora di più perché io stessa, in passato, ho realizzato lavori che hanno provocato reazioni forti. Questo, invece, è più semplice, quasi documentario. E talvolta mi viene il dubbio: «Sarà abbastanza interessante?» Però poi vado a incontrare i ragazzi, passo la giornata con loro, e mi rendo conto che sì, lo è. Mi sto divertendo, sto imparando tantissimo. E in fondo, questo è ciò che conta davvero per me.

Karla Hiraldo Voleau, «Giulia a Monseratto, Cagliari», 2024. © Karla Hiraldo Voleau