Giovanni Chiaramonte, «Sinagoga Hurva, Gerusalemme (dalla serie Terra del ritorno)», 1988, Fondazione Monteparma

© Eredi Giovanni Chiaramonte

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Giovanni Chiaramonte, «Sinagoga Hurva, Gerusalemme (dalla serie Terra del ritorno)», 1988, Fondazione Monteparma

© Eredi Giovanni Chiaramonte

Il viaggio di Arturo Carlo Quintavalle nella fotografia

La mostra dedicata al fotografo Giovanni Chiaramonte all’Ape è l’occasione per ripercorrere la vita dallo storico dell’arte e docente parmense dedicata allo studio e alla valorizzazione delle immagini

In occasione della mostra «Fotografia come misura del mondo» dedicata a Giovanni Chiaramonte, in corso fino al 9 marzo ad Ape Parma Museo, centro culturale ed espositivo della Fondazione Monteparma, abbiamo incontrato Arturo Carlo Quintavalle (Parma, 1936), curatore ma soprattutto storico dell’arte e docente che ha attraversato da protagonista la storia della fotografia (e non solo) della seconda metà del Novecento.

Iniziamo questa conversazione dalla sua amicizia con Giovanni Chiaramonte e dal percorso professionale che avete condiviso. Quando vi siete conosciuti?
Ho incontrato Giovanni Chiaramonte dopo Luigi Ghirri. Certo lui aveva visto la mostra «New Photography U.S.A» che ho curato a Parma, negli spazi del palazzo della Pilotta. Erano esposti fotografi come Diane Arbus, Lee Friedlander, Joel Meyerowitz e Garry Winogrand, la nuova fotografia americana appunto, e quella di Parma era l’unica sede italiana per un’esposizione prodotta dal MoMA di New York. E non fu l’unica, perché in quegli anni portammo in Italia dal MoMA anche mostre monografiche su George Grosz, Dorothea Lange e lo stesso Friedlander.

E dopo questo primo incontro?
Ho rivisto Chiaramonte tre anni dopo in occasione della monografica di Ugo Mulas, sempre organizzata dall’Istituto di Storia dell’arte dell’Università di Parma. Nel 1978 c’è stato poi un momento importante: la pubblicazione dell’Enciclopedia pratica per fotografare edita da Fabbri. All’interno di questi volumi ho presentato diversi fotografi, da Ugo Mulas a quelli che sarebbero poi diventati i protagonisti di Viaggio in Italia. Molti di loro prima avevano avuto giusto qualche mostra da Lanfranco Colombo alla galleria Diaframma di Milano.

Possiamo ripercorrere questa vicenda? Il volume del 1984 «Viaggio in Italia» è stato appena ripubblicato da Quodlibet e la sua importanza è sempre più evidente.
Un precedente è la mostra del 1983 organizzata e curata dallo stesso Chiaramonte in occasione del Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, undici dei fotografi di Viaggio in Italia erano esposti qui. Dopo di che i protagonisti si misero insieme per questo nuovo progetto. Io nel libro del 1984, curato da Luigi Ghirri, Gianni Leone ed Enzo Velati, avevo scritto un testo che spiegava l’idea dietro questo viaggio, mentre Gianni Celati aveva contribuito con un pezzo molto bello narrativamente ma anche pericoloso da un certo punto di vista, perché chiudeva in una dimensione subregionale l’invenzione di Ghirri.

In pochi anni sembrano aprirsi anche nuove prospettive internazionali.
Io ero amico di John Szarkowski dal 1963 e quando per la prima volta mi invitarono a insegnare a Chicago come visiting professor, lo andai a trovare. Ero partito il 28 dicembre, ero arrivato vestito autunnale nei 18 gradi sottozero dell’Illinois, con i bagagli bloccati dal ghiaccio, e con i soldi del primo stipendio era corso a comprare dei giacconi e un berretto. Ho avuto la bronchite per mesi...

Un incontro fondamentale però.
Lui era direttore del Dipartimento di fotografia del Museum of Modern Art di New York e io portai in dono nel 1975 al museo delle cartelle enormi con scatti tra gli altri di Luigi Ghirri e Nino Migliori. Viaggiavo in turistica e mi aiutarono gli assistenti di volo a portare quelle fotografie negli Stati Uniti. Tutto questo è rimasto al museo come fondo personale di Szarkowski, ma solo quattro anni fa il museo si è accorto di avere in mano un tesoro come «Paesaggi di cartone» di Ghirri e ne ha fatto un’edizione facsimile. In questo libro è raccontato l’inizio di questa storia.

Poco dopo lei è tornato in Italia.
Purtroppo non si può fare lo storico dell’arte per corrispondenza. Interessandomi poi prevalentemente di Medioevo... Certo, al Metropolitan di New York puoi vedere i chiostri francesi smontati e rimontati, però se vuoi studiare l’urbanistica, il territorio, i monumenti devi stare in Europa. Così nel giugno 1964 ho preso servizio in Soprintendenza a Bologna, con Cesare Gnudi.

Facendo un passo indietro, quale era stata la sua formazione?
Ho studiato alla Scuola Normale Superiore a Pisa dove sono stato allievo di Arsenio Frugoni e di Carlo Ludovico Ragghianti. Mai in vita mia ho studiato tanto come in quegli anni... Ho incontrato in seguito diverse persone che erano formaliste, postcrociane, ma in Normale se eri crociano poi gli anziani ti dimostravano che il tuo modello non funzionava. Per Ragghianti invece questo modello funzionava, ed era il primo a scrivere non solo di arte ma anche di cinema e design, ad esempio. Insomma, sono figlio di tanti padri. A insegnare alla University of Chicago sono poi andato dopo il perfezionamento. Percorrevo la Midway guardando l’Università di Enrico Fermi: allora sotto la tribuna dello stadio c’era ancora la sua pila atomica, oggi c’è una scultura di Henry Moore.

Quando ha iniziato il suo percorso da docente universitario in Italia?
Dopo le Soprintendenze sono tornato qualche anno negli Stati Uniti a insegnare, ho vissuto anche nella cittadina di Harvard, un pezzetto di Europa proprio come New York. Nel 1964 poi è arrivato l’incarico all’Università a Parma, dove ho insegnato storia dell’arte medievale, moderna e contemporanea. Ma ero un docente con incarico annuale, e inizialmente ho continuamente rischiato di essere mandato via, per le mostre che facevo. Ho sempre avuto gli stimoli per occuparmi di cose divergenti... il mio primo articolo su «seleArte» era una recensione agli scritti sul cinema di Pudovkin. Ma soprattutto ho iniziato a pensare che la comunicazione fosse un «sistema». Sono abbastanza anziano da aver visto scoprire la fotografia come arte, ma anche il manifesto, il design e così via...

La figura di Luigi Ghirri, amico e compagno di strada di Chiaramonte, emerge in questi stessi anni.
Allora Ghirri era un giovane fotografo che stimavamo io e pochi altri. Lui e Chiaramonte hanno avuto due vite intrecciate, hanno condiviso l’impresa della casa editrice Punto e Virgola, dedicata esclusivamente alla fotografia. I libri erano distribuiti a mano alle librerie da Luigi e Paola Borgonzoni, durerà poche uscite con molti problemi economici dopodiché la collana sarà presa in mano da Chiaramonte, spostandosi a Milano. Rappresentano poi due culture. Escono entrambi dalla ricerca concettuale. Ghirri proviene in particolare dal lavoro a fianco di Franco Guerzoni, punta su de Chirico e il Surrealismo. Il suo lavoro è come quello di Magritte, in cui devi scoprire il confronto o la variazione dentro l’immagine che ti fa scattare un significato differente. Chiaramonte non ha questo versante, la sua è una fotografia di lunga durata, di meditazione, di sapore umanistico.

Giovanni Chiaramonte, «Duomo (n. 137 dalla serie Cerchi della città di mezzo)», 1999, Fondazione Monteparma. © Eredi Giovanni Chiaramonte

Giovanni Chiaramonte, «Guadalajara (Messico), (dalla serie Oceano Latino)», 1996, Fondazione Monteparma. © Eredi Giovanni Chiaramonte

Com’è nata questa mostra su Chiaramonte in corso a Parma?
Era una promessa che avevo fatto allo stesso Chiaramonte. È anche il motivo per cui allo Csac-Centro Studi Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma, che avevo fondato alla fine degli anni Sessanta, ha donato negli anni più di 700 stampe, molte oggi esposte qui. Dopo un anno di lavoro oltre alla mostra ho realizzato anche la monografia per la collana Electaphoto, la prima importante retrospettiva sul suo lavoro.

Da dove è partito per la sua ricerca?
C’è un periodo che è importante nella sua attività, anzi fondamentale, e sono le sue prime mostre e la sua ricerca concettuale delle origini. La serie di fotografie «La Creazione/Neon» del 1974 è un dialogo con artisti che lavorano con il neon come Dan Flavin, un confronto fra oggetto, fotografia e parola, e pensiamo che le «Verifiche» di Ugo Mulas sono solo di pochi anni antecedenti. Interessante è anche l’uso della temporalità, così come il fatto che inizi in questi anni a fotografare i muri e continui per tutta la vita. Non a caso era così amico con Ghirri.

Dopo gli inizi e il periodo concettuale, come prosegue il percorso?
Un’altra mitologia importante è quella del viaggio. Viaggio nell’umanità del mondo. Emigrante, è cresciuto a Milano da una famiglia originaria di Gela, in Sicilia, e questa sarà per lui sempre la terra del ritorno. Ma questo mito del viaggio attraversa la sua intera esistenza, e in quanto cattolico profondamente religioso per lui il viaggio è anche quello della civiltà d’Occidente, per citare Jacques Le Goff, che parte dalla Grecia antica. Proponendo poi la presenza del divino in ogni cosa Chiaramonte riprende, sicuramente con consapevolezza, il discorso di sant’Agostino.

Quali modelli ritiene fondamentali per leggere il suo lavoro?
In tutte le sue fotografie c’è un ordine, un’architettura, una messa in scena che è quella della prospettiva post-rinascimentale italiana, anche per lui forma simbolica. La dominante dorata che introduce nelle sue immagini è un’altra chiave interpretativa importante. Il colore è un simbolo del divino. Chiaramonte si occupa poi di storia del cinema: Andrej Tarkovskij, da un lato, legge Iosif Brodskij e Ezra Pound dall’altro. È stato poi uno storico della fotografia, e ha insegnato fino all’ultimo allo Iulm a Milano, dopo averlo fatto inizialmente all’Università di Parma. Lì avevano già tenuto dei corsi Ghirri e Migliori prima di lui.

La sua mostra sta avendo un ottimo riscontro. Come vede oggi il successo della fotografia oggi, tra esposizioni e mercato? Le chiedo questo considerando tanto le posizioni radicali quanto il lavoro fondamentale fatto da lei nel corso degli anni.
Probabilmente la mostra d’arte è un po’ passata di moda, ma soprattutto è molto costosa da realizzare mentre quella di fotografia si fa relativamente con poco. Poi nella fotografia c’è un vuoto di critica, tanti scrivono ma non c’è un crivello. E aggiungerei che l’Italia non c’è un mercato forte, a differenza di altri Paesi europei, e quindi manca una selezione davvero dura.

Da dove muove invece questo suo interesse per la fotografia, questo impegno per portarla in ambito universitario?
Io fotografia l’ho sempre fatta: conservo ancora oggi più di 150mila immagini di monumenti medievali in Occidente e in Medio Oriente, musei e mostre, e di conseguenza di fotografia me ne sono sempre occupato. Quello che oggi è lo Csac di Parma avrebbe dovuto essere inizialmente un centro studi della fotografia. Ho sempre pensato che non esista arte e non arte, e quindi non esista l’arte applicata a un supporto specifico. Ho creduto veramente che la comunicazione passasse attraverso le immagini dei media, così come prima si era potuta fare attraverso cicli di affreschi al popolo o tramite manoscritti a un pubblico elitario. Quale differenza c’è tra un manifesto, un film (sia esso di consumo oppure d’autore) oppure un progetto di design?

Ci può raccontare brevemente come lei e sua moglie Gloria Bianchino lo avete portato in anni di direzione ad essere il centro che ha raccolto, studiato e salvato l’incredibile patrimonio di archivi che ha oggi?
Partirei dalle premesse. È stato preceduto da una serie di mostre, oltre a quelle arrivate dal MoMA di New York nel 1972, ad esempio, ho realizzato «Farm Security Administration» andando a comprare a poco più di un dollaro 2.200 stampe di Dorothea Lange, Walker Evans e tanti altri alla Library of Congress, dove sono custoditi i 90mila negativi. Quasi nessuno in Italia conosceva il progetto... E ci sono tante vicende simili che hanno arricchito gli archivi Csac in seguito. Poi erano anni in cui era facile ottenere donazioni, di interi archivi come di opere. Molte cose come i bozzetti dei manifesti non avevano un mercato e quindi venivano scartati... Certo, ho anche dovuto convincere figure come Enzo Mari. E tra le gallerie una sola ci ha aiutato, disinteressatamente: quella di Giorgio Marconi.

Si ricorda aneddoti e vicende particolarmente significativi in questa impresa epica?
Per recuperare questo patrimonio ho comperato personalmente negli anni prima uno poi un altro Ford Transit per trasporto merci, che usavamo per portare i fondi allo Csac. Il primo purtroppo era stato rubato a Milano sotto la casa di Roberto Sambonet. Poi ognuno donando il proprio archivio faceva delle scelte: gli architetti Figini e Pollini ad esempio non lasciarono i disegni «originali», ma li avevano fatti interamente trascrivere «in bella copia».

Lo Csac è ancora oggi un progetto pioneristico, un centro che ha salvato, studiato, esposto e valorizzato archivi e opere.
Lo Csac non è un museo, è un archivio e quindi tutti i documenti al suo interno sono pari. Può avere ovviamente una dimensione espositiva, ma è fatto prima di tutto per la ricerca e gli studenti. Le posso dire che tutto il patrimonio è stato donato all’Università, è un bene pubblico e accessibile. Ho fatto vent’anni anni di critica della fotografia e poi dell’arte su «Panorama», quarant’anni sul «Corriere della Sera», e ho sempre cercato di far regalare tutto allo Csac. In casa non ho fotografie, non ho opere regalate, a parte un quadro donato da Mario Schifano alle mie figlie. Io sono figlio di sovrintendenti, in fondo.

Opere di Mario Ceroli allestite nelle scuderie del Csac, 1969

Marco Scotti, 04 marzo 2025 | © Riproduzione riservata

Il viaggio di Arturo Carlo Quintavalle nella fotografia | Marco Scotti

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