«Veduta di Delft» (1660-61) nella mostra al Rijksmuseum. Foto Rijksmuseum/Henk Wildschut

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«Veduta di Delft» (1660-61) nella mostra al Rijksmuseum. Foto Rijksmuseum/Henk Wildschut

La mostra al Rijksmuseum è come un’opera di Vermeer: perfetta

Un approccio «less is more» alla più grande rassegna mai realizzata sui dipinti del maestro olandese la rende un trionfo. Ci accompagna all’allestimento Tracy Chevalier

«Less is more» (Meno è meglio). La frase è stata coniata nel XX secolo dall’architetto modernista Mies van der Rohe, ma potrebbe essere stata pronunciata da Johannes Vermeer nel XVII secolo. L’artista olandese non solo si concentrava principalmente su un semplice angolo di una stanza, ma probabilmente dipinse solo 45-50 opere nel corso della sua vita. Morì all’età di 43 anni, lasciando la vedova con 11 figli e un enorme debito. Conosciamo 37 dipinti e, sebbene non tutti gli esperti siano d’accordo, 28 di essi sono esposti in questa magnifica mostra in corso al Rijksmuseum di Amsterdam fino al 4 giugno.

Sebbene sia stato un miracolo logistico riunire tre quarti della produzione di Vermeer in un’unica mostra, 28 dipinti sono comunque pochi da appendere in un grande spazio espositivo. Fortunatamente per noi, i curatori Gregor J.M. Weber e Pieter Roelofs hanno mantenuto i nervi saldi e si sono affidati al principio «less is more». Invece di ridurre il numero di sale o di ingombrare lo spazio disponibile con opere di altri contemporanei o con informazioni sul mondo al di là dello studio di Vermeer, hanno appeso ogni quadro lasciandogli un’ampia superficie intorno, facendo virtù di quello che avrebbe potuto essere un problema. Molti dipinti hanno pareti proprie, alcuni addirittura sale proprie. L’effetto di così tanto spazio è quello di rallentare i visitatori, in modo da concedere più tempo a ciascun dipinto.

Con meno cose da guardare, contempliamo con più attenzione ciò che c’è e iniziamo a vedere di più. Tanto di cappello anche all’architetto e designer Jean-Michel Wilmotte, che ha fatto dipingere le sale in sobri (ma non cupi) rossi scuri, blu e verdi, e le ha vestite con tendaggi coordinati dal soffitto al pavimento che riscaldano e ammorbidiscono gli spazi e conferiscono alla mostra una dignitosa teatralità. I dipinti risplendono alle pareti in maniera assoluta. Eleganti balaustre semicircolari negli stessi colori sono state collocate intorno agli spazi di osservazione, perché c’era anche il problema di controllare la folla di una mostra così popolare, oltre che di presentare i dipinti di Vermeer nella migliore luce possibile. I curatori hanno scelto un approccio «less is more» anche nell’interpretazione di Vermeer e della sua opera. E che sollievo.

La maggior parte delle sale presenta uno o due cartelli accuratamente redatti sulla vita e la tecnica di Vermeer. Sono sparite le piccole didascalie accanto a ciascun dipinto, che spesso distraggono, irritano e rendono eccessivamente accondiscendenti. Qui, semplicemente il titolo, la data e il prestatore del dipinto sono incisi sulla parete, facilmente leggibili da lontano. Lo sguardo si perde senza dover eseguire quella goffa danza tra l’opera e la didascalia che spesso spezza il ritmo dello sguardo. I curatori hanno lasciato che i Vermeer parlassero da soli e che noi formulassimo le nostre opinioni. Curatori di tutto il mondo, prendete nota!

Ciò che i curatori e il designer sono riusciti a fare è estremamente raro: hanno raccontato la storia di Vermeer utilizzando la sua stessa estetica. Coniugare ciò che si dice con il modo in cui lo si dice dà luogo a un’esperienza più ricca della semplice somma delle sue parti; questo è l’obiettivo di ogni creatore, sia esso pittore, scrittore o curatore, e pochi ci riescono. Non ho mai visto una mostra che ci sia riuscita così bene. Essa stessa è diventata un’opera d’arte. Gli organizzatori di mostre impareranno da questa per gli anni a venire. Il percorso inizia con la definizione del contesto tramite gli unici paesaggi di Vermeer. In primo luogo, la magistrale «Veduta di Delft» (1660-61), che ci ricorda la provenienza e la maestria del suo pittore, e poi, a lato, «La stradina» (1658-59), una tipica casa di Delft, con donne che cuciono e spazzano e bambini che giocano per strada.

Questo ci conduce piacevolmente nel regno domestico, dove rimarremo per la maggior parte del tempo. Sebbene la disposizione non sia strettamente cronologica, nella seconda sala le prime opere di Vermeer servono a ricordare quanto si sia allontanato dai normali dipinti di genere o da quelli a tema religioso o mitologico. Sta imparando a usare il colore, a gestire la luce, a dipingere le pieghe dei tessuti. Sono opere da artigiano, di qualità ma nulla di più. Personalmente non saprei dire se sono di Vermeer, e di solito riesco a riconoscere un Vermeer a cento passi di distanza. Ma poi arriviamo alla «Ragazza che legge una lettera alla finestra aperta» (1657-58) e a «La lattaia», (1658-59) ed ecco il Vermeer che riconosciamo. Entrambe le donne sono isolate in un angolo della stanza, con la luce che entra dalla finestra a sinistra.

Qualcosa è cambiato nel suo occhio estetico; Vermeer ha trovato la sua magia e la sua dimensione ideale, perché questi e la maggior parte dei dipinti successivi sono più piccoli, e con successo. I colori sono condensati, la luce mette in risalto i dettagli. La lettera della ragazza brilla di bianco; il pane sul tavolo della lattaia è punteggiato di gocce d’oro. Vermeer ha iniziato a usare una camera oscura per guardare queste scene e infondere loro colore, luce e un senso di distanza dallo spettatore? Forse. In qualunque modo sia arrivato al suo punto di forza, possiamo vederlo chiaramente in tutta la mostra, dove questo senso di intimità, mistero e riverenza per l’ordinario è miracolosamente sostenuto. I dipinti del periodo di mezzo di Vermeer sono abilmente raggruppati in temi flessibili, di donne che scrivono e leggono lettere, di intermezzi musicali, di donne con visitatori maschi, di donne che ci guardano.

Una delle gioie di avere tanti Vermeer insieme è che possiamo facilmente fare confronti e considerare i dipinti come se fossero membri di una famiglia, con le loro somiglianze e differenze. Possiamo rintracciare attraverso i dipinti certe donne, certi abiti, certe sedie e tappeti, certi stati d’animo. Possiamo confrontare la luce quando una finestra è aperta o chiusa, o una parete vuota con la stessa parete su cui è appeso un quadro. Possiamo rivalutare i nostri Vermeer preferiti rispetto ad altri. Ammetto di avere un rapporto complicato con la mia opera preferita, «La ragazza con l’orecchino di perla» (1664-67). È un’immagine che ho guardato, di cui ho scritto e parlato ripetutamente negli ultimi 25 anni.

Inevitabilmente mi è diventata così familiare che non sempre la «vedo». In questa mostra, tuttavia, quando l’ho osservata insieme ad altri Vermeer vicini, ha preso posto tra le sue sorelle, i suoi cugini, i suoi vicini. Il dipinto non è stato più elevato a «preferito»; piuttosto, le altre opere sono diventate altrettanto potenti e hanno esercitato la loro magia segreta. Pensavo di conoscere bene i dipinti di Vermeer, ma sono rimasta sorpresa nello scoprire nuovi dettagli, come la frequenza con cui usa il rosso, a volte come accento (i nastri nei capelli o la cravatta su una gonna gialla; il filo di una scatola da cucito) o come capo di abbigliamento. «La lattaia» è dominata nella nostra mente dal blu e dal giallo, eppure indossa una gonna rossa. E in tutte le sale i punti luce brillano e risplendono come stelle silenziose e brillanti.

Questa è una mostra così importante, la mostra del secolo su Vermeer, che le collezioni troppo esigenti per prestare il loro Vermeer rimpiangeranno di essersi perse la festa. Sono particolarmente delusa dal fatto che «L’arte della pittura» (1666-68) non sia stata prestata alla mostra dal Kunsthistorisches Museum di Vienna. In questo capolavoro, infatti, si può intravedere l’artista stesso, in ogni caso un pittore di spalle, immerso nel suo modello e nel suo lavoro (e con indosso una calzamaglia rossa). In effetti, una parete vuota attende l’opera nel caso in cui Vienna cambiasse idea e permettesse al suo pittore di fare un’apparizione tardiva. Sarebbe il modo perfetto per concludere questa squisita mostra.

«Vermeer», Amsterdam, Rijksmuseum, 10 febbraio-4 giugno 2023

L’autrice dell’articolo è saggista e romanziera. Suo il bestseller internazionale La ragazza con l’orecchino di perla (1999)
 

«Veduta di Delft» (1660-61) nella mostra al Rijksmuseum. Foto Rijksmuseum/Henk Wildschut

Tracy Chevalier, 13 marzo 2023 | © Riproduzione riservata

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