«Le déjeuner dans l’atelier» (1868) di Édouard Manet, Monaco di Baviera, Neue Pinakothek

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«Le déjeuner dans l’atelier» (1868) di Édouard Manet, Monaco di Baviera, Neue Pinakothek

La saga Manet: una dynasty artistica degna di Beautiful

La «famiglia allargata» del precursore dell’Impressionismo è al centro di una mostra all’Isabella Stewart Gardner Museum. Fu Berenson a volere che nel museo bostoniano il ritratto della madre dell’artista fosse esposto tra Pollaiolo e Degas

«Manet. A Model Family», in corso fino al 20 gennaio all’Isabella Stewart Gardner Museum-Hostetter Gallery di Boston, dedicata da Diana Seave Greenwald a uno dei precursori dell’Impressionismo, è la prima mostra incentrata sui «portrait family» all’interno dell’opera di Édouard Manet (1832-83). I diversi contributi in catalogo presentano l’esito di analisi tecniche, accurate ricerche d’archivio e d’indagini biografiche condotte attorno alla famiglia del pittore per studiarne i molteplici risvolti all’interno del contesto borghese di fine Ottocento.

La rassegna, che riunisce importanti prestiti dall’Europa e dagli Stati Uniti, tra cui lo splendido ritratto della madre del pittore, «Madame Auguste Manet» (1866 ca) dello stesso Gardner Museum, tenta di analizzare il pittore francese e il suo entourage da una prospettiva molto intima e personale qual è quella delle complesse relazioni familiari riuscendo così a presentarlo al pubblico in una veste più umana. Quale ruolo ebbe il côté familiare all’interno della sua produzione? E come si districava lui stesso nel labirinto dei delicatissimi rapporti domestici? 

Ogni artista ha le sue muse e per Édouard, considerato universalmente come il padre della modernità, una di queste era la famiglia; una famiglia che oggi non esiteremmo a definire «allargata» e con una gestione estremamente complessa soprattutto alla luce degli standard morali allora vigenti. Il pittore, infatti, nel 1863 aveva sposato la presunta amante del padre, Suzanne Leenhoff, un’olandese di Delft emigrata in Francia che anni prima, nel 1849, era stata assunta in casa Manet come insegnante di pianoforte. Una talentuosa pianista definita da Baudelaire nel 1863, all’indomani delle nozze con il pittore, «bella, molto gentile e una grande artista». Suo figlio Léon-Édouard Koëlla (1852-1927, raffigurato in «Le déjeuner dans l’atelier») meglio conosciuto come Léon, nato fuori dal matrimonio, era di padre ignoto. Poteva essere figlio di Édouard, di suo padre Auguste o di un altro uomo. In pubblico era presentato come il fratello minore di Suzanne, mentre in privato lui stesso si rivolgeva al pittore e alla moglie come ai propri padrino e madrina. Dopo il matrimonio da questi ultimi non venne riconosciuto; con ogni probabilità era figlio di Auguste e, dunque, figliastro e fratellastro dell’artista. 

Ma non è tutto. La madre del pittore, Eugénie-Désirée Fournier (1811-85), una matriarca dalla tempra d’acciaio che sovrintendeva al corretto svolgimento della vita sociale e finanziaria di quella complicata famiglia borghese era, neanche a dirlo, in pessimi rapporti con i parenti acquisiti. Tuttavia, se la gestione quotidiana era a dir poco complessa soprattutto per il mantenimento di equilibri interpersonali profondamente precari, la famiglia Manet ebbe una vita serena. Contrariamente alle non proprio brillanti premesse e all’assioma tolstoiano («tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo»), i diversi protagonisti di quel nucleo così particolare ed eterogeneo convissero in un clima aperto e cordiale animato da una costante armonia. La loro era una famiglia felice, realmente felice in quel suo modo unico e complicato. Non solo. I diversi componenti rappresentarono per Manet una costante fonte d’ispirazione creativa

Sia la cognata Berthe Morisot (1841-95), moglie del fratello Eugène, amica intima e collega, sia Léon che Suzanne o Eugénie furono i modelli prediletti dall’artista. Le loro eleganti figure, sapientemente delineate in pennellate audaci e rivoluzionarie, recanti sul volto la fissità dell’espressione a metà tra compiacenza e severità, furono tra i soggetti da lui più frequentemente interpretati. Nei loro confronti la mostra rappresenta, dunque, una sorta di riconoscimento atteso da tempo per il ruolo preminente ricoperto sia nella vita che nell’opera del pittore. Fu grazie all’impegno dei suoi discendenti, infatti, fonte di sostegno emotivo e, di riflesso, finanziario che l’opera del pittore non fu dimenticata

Relativamente al dipinto «Madame Auguste Manet», Isabella Stewart Gardner era da tempo interessata ad acquisire un ritratto di Manet e, una volta segnalatole dal suo consulente Bernard Berenson, nel 1910, a sette anni dall’apertura al pubblico del suo museo, ne entrò in possesso. Lo stesso Berenson, impressionato dalla seduzione di quel nero così rilucente lo definì «una cosa colossale» e suggerì alla mecenate di appenderlo accanto ai ritratti del Pollaiolo e di Degas per creare una «trinità di grandi dipinti che sono anche tremendi studi di carattere». Non a caso lo stesso Diego Martelli, forse l’unico critico italiano dell’Ottocento di statura europea, assimilata progressivamente la portata rivoluzionaria del linguaggio manettiano, consistente anche nella peculiarità di rendere il ritratto una sorta di alter ego fisico e morale del soggetto, lo collocò «fra gli ultimi grandi maestri del passato e sulla porta dei grandi maestri dell’avvenire».

«Madame Auguste Manet» (1866 ca) di Édouard Manet, Boston, Isabella Stewart Gardner Museum-Hostetter Gallery

Elisabetta Matteucci, 16 dicembre 2024 | © Riproduzione riservata

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