«Amo l’industria per le sue strutture, per i suoi suoni. Mi piacciono i lavoratori perché costruiscono cose, lavorano con materiali reali. Il mondo della fabbrica è una musica, le macchine sono organizzate come fossero un’orchestra». Anche se l’intervista è di quasi trent’anni fa, le parole di David Lynch sembrano oggi un’introduzione ideale a quanto esposto nella personale, in corso fino al 31 dicembre alla Gallery del Mast di Bologna, «David Lynch. The Factory Photographs» (catalogo Prestel Verlag). Curata da Petra Giloy-Hirtz in collaborazione con il Mast e la Photographers’ Gallery di Londra, la mostra presenta 124 immagini in bianco e nero, che il regista americano ha scattato tra 1980 e 2000 nelle fabbriche intorno a Berlino, in Polonia, in Inghilterra, e poi a New York, in New Jersey e a Los Angeles. Cineasta di culto, oltre che pittore, scrittore, compositore, fotografo e fumettista, Lynch ha sempre dichiarato la sua ossessione per le strutture industriali, cattedrali di un mondo che si estingue, abbandonato al tempo, con ciminiere e comignoli che si alzano come torri. Si muove tra gli edifici riprendendo vetrate e soffitti, portali aperti sul vuoto e fili sospesi ai piloni, luoghi che non si lasciano percorrere, che restano oscuri e claustrofobici. Lo sguardo è quello dei suoi film, si sposta lungo percorsi costruiti sul potere della visione, intaccato a ogni passo dalla paura stessa di vedere, di dover assistere nostro malgrado a uno spettacolo terribile. Il senso di minaccia latente che è in tutti i suoi film si ritrova anche nelle immagini fisse, dove i grigi e i neri soffocano la luce che non riesce a fare chiarezza.
La stessa inquietudine si respira nelle 60 opere di «David Lynch. Lost Images. L’indiscreto fascino dello sguardo», la mostra che, insieme alla retrospettiva completa dei suoi film, è allestita fino al 9 novembre nel nuovo spazio dell’Archivio di Stato a Lucca, in occasione della decima edizione del Lucca Film Festival di cui Lynch è ospite d’onore. Curata da Alessandro Romanini, riunisce le due serie fotografiche «Small stories» e «Women and machines», e una selezione di litografie prodotte a partire dal 2007, quando avvicina questa tecnica nell’antico atelier Mourlot di Parigi, ora Idem, dove stampavano anche Picasso, Braque, Chagall. È qui che qualche anno dopo scatta le immagini dedicate alla donna e alla macchina, in un connubio dove il corpo femminile risulta luogo misterioso per eccellenza, avvolto dall’ombra e dato per brani. Con i bianchi e neri delle «Small Stories» si entra in un territorio surreale: «Di solito, ha detto ancora, siamo attratti dal guardare dove non possiamo. Se entrassimo, di notte, in un appartamento potremmo trovare e scoprire un mondo fantastico, incontrare strani personaggi». Come la figurina che lo impersona sullo sfondo di un campo aperto con in primo piano il grande cavallo giocattolo; o come gli interni da incubo dove gli oggetti volano e i personaggi si sdoppiano, disseminati da riferimenti simbolici.