La Fondazione Merz inaugura il 26 ottobre la sua sede palermitana presso il padiglione ZAC ai Cantieri Culturali alla Zisa con la mostra collettiva «L’altro, lo stesso» (fino al 27 marzo 2022). Curata da Beatrice Merz e Agata Polizzi, l’esposizione dà il via a un progetto triennale battezzato ZACentrale: in programma esposizioni, educazione e ricerca, per un’idea di arte contemporanea fatta di relazioni e di esperienze. Lida Abdul, Rosa Barba, Alfredo Jaar, Joan Jonas, Silvia Maglioni e Graeme Thomson, Mario Merz e Marisa Merz sono gli artisti scelti per la mostra integrata da video storici dei due artisti titolari della Fondazione, di Gino De Dominicis, Gilbert & George e Lawrence Weiner.
Beatrice Merz, il titolo della mostra riprende quello di una raccolta di poesie di Jorge Luis Borges, a sottolineare la continuità del processo creativo. In che modo l’esposizione affronta questo tema?
Secondo me l’attenzione all’evoluzione dei processi creativi sta alla base di ogni progetto curatoriale. Nel nostro caso questo aspetto è messo ancor più in evidenza dalla scelta dei protagonisti: artisti che per tutta la vita hanno continuato a mettersi in gioco evolvendo il proprio lavoro. Agata e io ci siamo divertite a complicare le cose, mettendo in luce i possibili intrecci.
Una svista pirandelliana potrebbe trasformare il titolo in «L’altro, io stesso», suggerendo che il concetto di eterna rinascita si riferisca anche a quello di comunità. È così?
Certamente si riferisce al concetto di comunità. Di fatto gli artisti e le opere sono stati individuati proprio in relazione alla loro pratica di artisti «comunitari», attenti alle dinamiche e implicazioni sociali e politiche dell’opera d’arte.
Anche la Fondazione dimostra di esserlo: questa prima esposizione mette in chiaro la volontà di coinvolgere altre realtà oltre a quella dello ZAC, dai palazzi storici ai luoghi di lavoro e di sport. Fin dove si spingerà?
Oltre... magari oltre mare.
In mostra anche opere inedite di Marisa Merz. Da dove nasce la scelta di svelarle al pubblico proprio a Palermo?
La scelta deriva da un percorso che stiamo costruendo in Fondazione. L’archivio di opere è ricco di soprese e, oltre alle opere svelate nella mostra ora in corso a Torino, ci pareva particolarmente bella l’occasione per regalare al pubblico palermitano qualcosa di inedito. Come fosse la sorpresa che ti viene a scovare e non più solo noi a cercarla.
D’altronde, quello con Palermo è un legame consolidato da tempo: nati nel 2007, i rapporti con la città si sono intensificati nel 2018, durante Manifesta, e nel 2019, quando la Fondazione ha partecipato alla seconda edizione della Biennale Arcipelago Mediterraneo. C’è chi sostiene che di quelle esperienze sia rimasto poco nel contesto locale. Lei che cosa ne pensa?
Penso che sia vero, almeno in parte. Se nella città sono rimasti pochi segni materiali del passaggio di rassegne come Manifesta, che hanno avuto però un ruolo importante nel narrare la vivacità culturale di Palermo, è vero che sono rimaste le esperienze, la curiosità e la voglia di confrontarsi con la contemporaneità. Noi siamo rimasti: il percorso fatto in questi anni è senza dubbio l’esito di un dialogo che ha lasciato un segno reciproco, alimentando un rapporto che ha reso possibile quanto oggi sta accadendo allo ZACentrale.
L’attenzione all’educazione è un tratto distintivo della Fondazione. Quali progetti prevede a Palermo?
Il dipartimento è attivo fin da adesso nel progettare e coinvolgere gruppi di cittadini, studenti ma non solo, a partecipare alla vita del progetto. È fondamentale («centrale» è una parola scelta non a caso) costruire insieme i progetti, mai calarli dall’alto credendosi investiti di chissà quale carisma. La nostra ambizione è quella dell’incontro; essere acceleratori e aggregatori, costruttori di comunità.
A proposito di carisma: durante la Biennale Democrazia, tenutasi a Torino a inizio ottobre, la Fondazione ha organizzato un incontro dedicato alle esperienze democratiche non occidentali, sottolineando come il termine «democrazia» non sia più necessariamente sinonimo di Europa e di Stati Uniti. Vista da qui, non ci sarà anche un po’ da preoccuparsi?
Sì e no. Occorre forse preoccuparsi, in realtà, di non considerare più così centrale il modello «occidentale» di cultura, di democrazia e di civiltà. Interrogarsi sulla natura democratica dei movimenti, che in altri tempi avremmo definiti popolari, non porta in sé un rischio, almeno non necessariamente. Si interroga però sugli aspetti di crisi, sull’immobilismo delle società liberali e sulla cultura «alta» rispetto alle istanze di altra natura.
Le istituzioni locali hanno sempre sostenuto la nascita della «casa» palermitana della Fondazione. Che cosa si augura per le future politiche culturali di Palermo?
In questi anni il dialogo fitto, spesso dialettico, con un’amministrazione culturalmente avanzata ha consentito un confronto intenso, favorito la nascita di idee e progetti che guardavano nella stessa direzione. Questa non è una strada obbligata. Certamente mi auguro dialogo e condivisione con chi verrà, da parte nostra ci sarà la massima apertura. Per il futuro credo che sia importante poter continuare questo dialogo che auspico possa rafforzare quanto già fatto. Da parte nostra c’è una grande voglia di prenderci cura e abitare nel tempo «la casa» palermitana.