Emma Lavigne e Marta Dziewanska, curatrici della retrospettiva «Il mio pensiero seriale. Miriam Cahn», al Palais de Tokyo fino al 14 maggio, ci raccontano com’è stata realizzata: un sopralluogo sul posto, nell’Engadina, nelle Alpi svizzere, dove l’artista vive e lavora, nessun tipo di progettazione, ma scambi, trasporto di opere e una decina di giorni per l’allestimento in uno spazio che non è stato quasi modificato, ad eccezione di una piccola stanza che ospita un insieme realizzato in risposta alla guerra in Ucraina («Kriegsraum [War Space]», primavera 2022).
Per designare questi spazi, Miriam Cahn usa il termine «cluster», un raggruppamento, nell’accezione più generale, di opere di dimensioni diverse eseguite su vari supporti, dai quaderni alle tele di grande formato, la cui disposizione sulla parete è come quella conseguente a un’onda d’urto (come una bomba a grappolo) o a una simultaneità e una risonanza, come quando, battendo il pugno su una tastiera, si suonano più note contemporaneamente (cluster, in musica). I pugni («Ohne Titel», 2021-22), o i pugni chiusi conficcati nei corpi, sono proprio i soggetti ricorrenti in cui si espone e si concentra la violenza che, in tutte le sue forme, percorre l’opera.
Questa violenza è generalizzata e fondamentalmente non localizzata, i corpi da cui provengono i colpi sono spesso ridotti agli avambracci; i volti, quando sono visibili, sono schematici, persino sfocati. Proprio attraverso questa indeterminatezza, i ruoli, vittima e carnefice, sé e altro, possono essere scambiati secondo il principio del «Könnteichsein» («potrei essere io»), mentre la violenza e la sofferenza sono condivise. «L’io è sempre noi», dice l’artista, e «questo ci riguarda» (titolo del testo in catalogo di Marta Dziewanska), non solo perché stiamo guardando, ma perché siamo parte della storia che si sta tessendo di opera in opera.
Linee per dettare il ritmo
Da qui questo particolarissimo modo di allestire che, anche quando i quadri aggrediscono la parete, dal pavimento al soffitto, si basa su una prima «linea orizzontale all’altezza degli occhi», in modo che «la gente guardi le figure negli occhi» e, quando queste hanno le braccia alzate, il pubblico si immagini in questa posizione vulnerabile di fronte a un potere che si sta esercitando, qualunque esso sia. Si sviluppano quindi linee formate da blocchi separati da respiri, come le parti di una frase, con accostamenti talvolta di disegni, fotografie e dipinti il cui significato è da immaginare, ma anche da sperimentare.
L’enigmatico sorriso di una figura umana dipinta è illuminato dalla vicinanza dell’immagine di un gatto, mentre si susseguono, coesistendo in discontinuità, mani di carboncino mescolate nelle loro torsioni dagli avvolgimenti delle linee che le formano, l’apparizione di tre crochi nei colori limpidi e freschi della primavera di cui annunciano l’arrivo, e il primo piano del volto di Adolf Eichmann, che appare e viene fotografato sullo schermo televisivo.
Le linee sono disposte all’altezza delle pareti, come sequenze la cui lunghezza varia a seconda delle dimensioni della serie di disegni realizzati dall’artista ai suoi esordi, alla fine degli anni Settanta. Esse inscrivono immediatamente l’importanza del ritmo, dell’energia e del movimento (tratti rapidi, forti e nervosi, penetrazioni o espulsioni figurative), così come gli echi delle tragedie del nostro tempo, le guerre che hanno segnato gli ultimi decenni, le armi utilizzate e gli spostamenti di popolazione che ne conseguono.
Intensità e ripetitività
Resistendo all’accumulo di opere nello spazio espositivo, si avverte un senso di urgenza, corrispondente al modo di lavorare di Miriam Cahn che, dice, «dipinge come se stesse facendo una performance» e torna su un quadro solo a distanza e per trasformarlo, non per completarlo. «Lavoro molto velocemente», spiega alla critica d’arte Clara Schulmann, «e anche questo è piuttosto performativo. Ho un’ora o due di azione, è tutta una questione di concentrazione». E giorno dopo giorno, dopo che le opere precedenti sono state girate contro la parete la parete, arrotolate o piegate, il processo ricomincia, certamente da zero, ma anche nel flusso continuo che guida l’artista.
Questa intensità la ritrova nell’allestire le sue mostre, grazie alla leggerezza delle opere che progetta per poterle manipolare: «Devo poter disporre di questo momento in cui posso correre con i miei quadri e metterli ovunque. Tutto va molto veloce, ma devo essere in grado di trasportarli. Questo è ciò che mi dice il pensiero del corpo, che è molto preciso: non mi dice se è giusto o sbagliato. Dice: “Facciamo cosìˮ, “Non possiamo più fare così, facciamo diversamenteˮ. E questo mi piace molto».
È anche per questo che, appena entrati in mostra, ci si trova in bilico tra, da un lato, l’ampia curva del Palais de Tokyo, i grandi formati su carta che alternano il nero profondo del carboncino, che a volte traccia scene che associano uomini e animali, a volte crea immensi paesaggi agitati da innumerevoli scosse, e i colori vividi e liquidi dei funghi atomici; e, dall’altra parte, figure dipinte a figura intera, tutte simili, ma trattate con una grande varietà di registri formali e cromatici, sempre frontali, rivolte verso di noi («Raum-Ich» [Space-me], 2010). Ci si ritrova fuori dalla linearità cronologica per questo movimento continuo, per questo «pensiero seriale» che dà il titolo alla mostra.
È ciclico, come le mestruazioni che fanno da cornice temporale a «Lesen in Staub - 1 weiblicher monat» (Lettura nella polvere - 1 mese femminile, 1988), come le onde che vanno e vengono, come le stagioni evocate nei paesaggi da alcuni colori, il bianco della natura in sonno e il verde della sua rinascita, come il susseguirsi di morti e nascite. È ripetitivo perché i corpi nudi e le teste semplificate sono onnipresenti, e i motivi ritornano, tanto più che le proiezioni di diapositive su piccoli schermi, imponendo la loro «cadenza ritmica» allo spettatore, mostrano alcune delle opere non esposte.
Ripetitivo, dunque, perché la memoria funziona così, perché le guerre non smettono di ripetersi e perché l’artista, alla fine, si chiede «come/quando un’immagine diventa insopportabile?». Ripetitivo, infine, perché il primo gesto è una rivelazione e può essere ripetuto solo in seguito, perché, come ha scritto Briony Fer in The Infinite Line, «siamo perduti senza ripetizione» o, come dice Clarice Lispector, l’autrice amata da Miriam Cahn: «La ripetizione che ritorna nello stesso punto produce gradualmente un segno, la stanca ripetizione dice sempre qualcosa».