Il 16 novembre inaugurerà nei Musei Civici di Bassano del Grappa «Brassaï. L’occhio di Parigi», mentre ad ottobre Il Filatoio di Caraglio ha aperto l’esposizione «Robert Doisneau. Trame di vita», la Castiglia di Saluzzo «Elliott Erwitt. L’ideale fuggevole» e Il Belvedere, Reggia di Monza, «Unseen, Le foto mai viste di Vivian Maier». A dicembre poi, a Palazzo Gromo Losa e Palazzo Ferrer a Biella, aprirà «Steve McCurry Uplands&Icons».
Facendo una breve ricerca i fotografi più rappresentati in Italia sono Henri Cartier-Bresson, Steve McCurry, Man Ray e Martin Parr: le fotografie di Steve McCurry, negli ultimi cinque anni, sono state esposte a Pisa, Genova, Ventimiglia e Trento; Martin Parr a Bologna, Milano e Torino. Henri Cartier-Bresson ha presentato diverse esposizioni in Italia, tra cui una è ancora aperta fino al 26 gennaio 2025, a Palazzo Roverella a Rovigo, «Henri Cartier-Bresson e l’Italia». Elliott Erwitt è stato esposto ad Abano Terme, Bari, Riccione, Milano; Man Ray a Milano, Torino e Genova; Robert Doisneau, a Torino, Milano, Roma e Aosta.
La fotografia italiana del dopoguerra ha sempre faticato a trovare una collocazione internazionale e forse non ha mai avuto grande attenzione di pubblico nonostante abbia interpreti di grande valore (penso a Giuseppe Cavalli, Mario Giacomelli, lo stesso Carlo Mollino, Luigi Veronesi e Piergiorgio Branzi). Letizia Battaglia e Lisetta Carmi stanno trovando solo ora un giusto riconoscimento, ma per il resto, i fotografi francesi e americani ci hanno sempre spodestato, supportati da un sistema molto più serio, strutturato e attento al proprio patrimonio culturale.
Ma se guardiamo al presente, nulla è cambiato. I nostri fotografi, che spesso lavorano moltissimo all’estero, faticano troppo a trovare istituzioni che gli diano spazio e attenzione. Oggi, anche gli stranieri più conosciuti e stimati a livello internazionale non sembrano avere particolare rilevanza e interesse per il nostro sistema culturale. Prendiamo due dei più noti fotografi viventi e in attività: Andreas Gursky e Wolfgang Tillmans. Gursky ha avuto la sua prima antologica italiana «Andreas Gursky. Visual Spaces of Today» alla Fondazione Mast di Bologna nel 2023 e Tillmans, che pure nel 2022 ha esposto in un’imponente retrospettiva al MoMA di New York e sarà presentato in una grande personale al Centre Pompidou di Parigi nel 2025, è stato esposto in Italia solo in mostre collettive (tra cui al Macro, Museo d’Arte Contemporanea di Roma, nel 2022, e nel Castello di Rivoli quest’anno).
È davvero un’operazione culturale che fa bene alla fotografia presentare sempre gli stessi autori con immagini iconiche e facilmente riconoscibili senza inserirli nel contesto del loro tempo e senza dare rilievo alla qualità delle stampe presentate? Troppo raramente c’è una vera riflessione sugli artisti e sui diversi modelli di fotografia.
Mi viene da pensare che molti operatori del settore, che non so se chiamare curatori, non vedano ancora nella fotografia un mezzo d’arte autonomo (come di fatto è da ben più di un secolo) e che non ne percepiscano l’immensa capacità di pensare, raccontare e interpretare il presente, guardando contemporaneamente al futuro attraverso nuove, costanti sperimentazioni. Un tempo pensavo che queste mostre «di cassetta» fossero comunque un’operazione culturale e di educazione al medium. Oggi credo sia venuto il tempo di interrogarsi: a chi giova veramente questa proliferazione spettacolare?