Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Davide Landoni
Leggi i suoi articoliARTICOLI CORRELATI
In principio fu Salisburgo, perché era la culla della musica classica; poi venne Parigi, il cuore per eccellenza dell'Europa. E di seguito Londra, Seoul, il successo mondiale. Ma il Vecchio Continente è sempre rimasto una passione viscerale per Thaddaeus Ropac (1960), che si appresta a inaugurare una galleria a Milano (diretta da Elena Bonanno di Linguaglossa), pur non avendo «aspettative chiare riguardo al contesto di mercato che ci aspetta», ma l'intima convinzione che sia la città giusta dove portare i suoi artisti in esposizione. E chissà, trovarne di nuovi. Nel frattempo, si parte il 20 settembre 2025 con la mostra «L'aurora viene», una doppia personale dedicata a George Baselitz e Lucio Fontana. Lo abbiamo incontrato proprio nella città meneghina. Al tavolo che ci accolto sedeva sulla punta della sedia, proteso verso l'interlocutore con sincera partecipazione, pronto a ripercorrere esordi e sviluppi, cercando di delineare un metodo di lavoro che non si è mai scostato dall'istinto, ma che di certo lo ha portato lontano in questi oltre quarant'anni nel mondo dell'arte. Tante cose sono cambiate dagli anni '90, molte in meglio, mentre altre sono rimaste intatte. Di seguito lo sguardo lucido ma ancora incantato di uno dei più importanti galleristi del mondo.
In attesa dell’imminente apertura di Art Basel, a Basilea, a maggio i riflettori sono stati a lungo puntati su New York, tra fiere e aste di prima fascia. La città americana è ancora il centro del mercato mondiale?
Lo è da diversi decenni e senza dubbio lo è ancora. Ma rimane soprattutto un luogo dove si produce arte. Ci sono migliaia di artisti che vivono attorno a New York. Oltre che il centro degli scambi è anche il luogo potenzialmente più importante nella costruzione della carriera di un artista. Si dice che prima o poi la città perderà questo ruolo, ma non è ancora giunto quel momento.
Anche collezionisti e gallerie la prediligono ad altre destinazioni?
Non credo che esista un altro posto come New York dove si concentra una massa critica di collezionisti importanti. Provocatoriamente si dice che non ci sarebbe bisogno di una fiera d'arte a New York, perché New York è una fiera tutto l'anno. Tanto che entrambe le rassegne di maggio, Tefaf e Frieze, sono nate in Europa e poi sono andate negli Stati Uniti. Forse è un’esigenza delle gallerie e dei player europei trovare una vetrina nella Grande Mela.
Quindi avete partecipato alle aste di maggio?
Certo, non manchiamo mai. Negli ultimi 30 anni ho partecipato a tutte le grandi aste primaverili di New York. Magari non direttamente, ma ho un team che si occupa del mercato secondario e siamo costantemente in contatto.
Ora come prosegue il calendario?
Sicuramente Basilea è la tappa più importante. Ma abbiamo eventi praticamente ogni due giorni, con sette gallerie che producono complessivamente tra le 35 e le 40 mostre l'anno. E spesso c’è uno dei nostri artisti che inaugura una mostra in qualche museo. I nostri artisti vivono in tutto il mondo, dal Pakistan alla Corea, come i nostri clienti. Il business dell'arte è diventato così internazionale che mi sembra di essere su un aereo ogni due giorni.

Georg Baselitz, Rosa riposa, 2019 © Georg Baselitz. Courtesy Thaddaeus Ropac gallery, London · Paris · Salzburg · Milan · Seoul. Photo: Jochen Littkemann
Torniamo a quando non era così, alle origini della galleria. Come è entrato nel mondo dell'arte?
Ho iniziato a Salisburgo nel 1983, oggi la galleria ha oltre 40 anni. Ad avvicinarmi all’arte contemporanea, a farmi capire che avrebbe avuto un ruolo importante nella mia vita, furono le opere di Joseph Beuys, il grande artista tedesco, che tra l’altro ebbe ottimo rapporto con l'Italia, soprattutto con Torino e Napoli. All'inizio volevo diventare un artista. Quando ho capito che non avevo il talento, la cosa che più gli si avvicinava si rivelò lavorare al fianco degli artisti. Ho iniziato in modo quasi ingenuo, senza esperienza o formazione, ma ero appassionato.
Poi com’è andata?
Nel 1990 aprì il primo spazio a Parigi. Per la galleria e i suoi artisti era importante muoversi in una piazza più grande, dove si ritrovassero tutti i protagonisti del mondo dell’arte. Anche se forse il place to be era Londra, con Damien Hirst e gli Young British Artists che iniziavano a farsi conoscere, ero convinto che Parigi fosse il posto giusto, la città europea per eccellenza. Gli artisti si fidarono e il passaggio fu un momento chiave per noi. Inoltre Salisburgo-Parigi era a distanza di automobile.
Si è mai pentito di non essere andato subito a Londra?
Spesso mi trovavo a guardare a Londra come la città di riferimento per l’arte in Europa, ma per me e gli artisti con cui mi trovato a lavorare Parigi era il posto ideale in quel momento.
Da quegli anni ad oggi è cambiato il suo metodo di lavoro?
È cambiato. Ma fondamentalmente mi affido sempre all’istinto. Per esempio, la galleria che aprirà a Milano: le persone mi chiedono se ho fatto uno studio di fattibilità, se credo che Milano diventerà un hub, se penso che Milano sia un grande mercato. L’elemento più importante per me è sempre stato: dove i nostri artisti potrebbero essere ispirati a esporre?
Come ha affinato questa capacità?
Ho imparato molto nei 45 anni passati nel mondo dell'arte. Ci vuole talento nello scovare la qualità, lavoro duro e anche fortuna. Col tempo abbiamo poi costruito un grande team. Ogni decisione viene presa insieme, compresa la scelta degli artisti con cui collaborare.
Ci sono state delle figure che l’hanno ispirata in questo percorso?
La persona a cui più sono grato è Leo Castelli, il gallerista più importante di tutti gli anni ‘80. Grazie a lui ho conosciuto i grandi artisti dell'epoca, come Rauschenberg, che ho esposto nella mia galleria di Salisburgo sin dall'inizio. Mi rende orgoglioso che oggi, decenni dopo, ne rappresentiamo la Fondazione. E poi Warhol, Lichtenstein. Anche gli artisti stessi sono stati d’ispirazione. Dal già citato Beuys, che conosco dal 1984, ad Anselm Kiefer.
Il mondo dell’arte è cambiato da quel periodo?
Quando ho iniziato il sistema si divideva sostanzialmente tra Europa e Stati Uniti, con gli artisti che si muovevano tra i due centri. Baselitz, per esempio, è stato molto influenzato dall’arte americana, soprattutto da De Kooning, ma anche da Lichtenstein. Non era ancora tempo di allargare l’orizzonte, tanto era forte l’interesse reciproco. Oggi è molto forte anche l’influenza dell’Asia – qualcosa di impensabile 25 anni fa – e per fortuna le artiste stanno finalmente raggiungendo il riconoscimento che mancava in passato, così come l’attenzione e la consapevolezza verso le produzioni di artisti provenienti da uno spettro globale e multiculturale. Penso sia stato un cambiamento molto positivo.

L'interno di Palazzo Belgioioso, Milano, sede di Thaddaeus Ropac
Cos’altro è cambiato?
Non solo il predominio dell’Europa e dell’America, ma anche il predominio maschile nel mondo dell'arte si è affievolito, lasciando spazio per un’attenzione dovuta verso le minoranze, siano esse di genere, etniche e culturali. Prima i principali artisti erano tutti uomini e bianchi, ed era ingiusto oltre che strano. Ora il sistema è molto più aperto, diversificato, tutti siamo invitati a partecipare. L’arte contemporanea è finalmente anche a portata di mano del pubblico. Quando andavo a scuola in Austria negli anni '70, l'arte contemporanea non faceva nemmeno parte del programma, che si fermava a Klimt e Kokoschka. E così in Francia, e immagino anche in altri Paesi. Oggi invece ho la sensazione che i ragazzi crescano con la consapevolezza che l'arte contemporanea sia parte della loro vita.
Dall’esterno molti percepiscono questo mondo ancora come inaccessibile, può essere?
Si, ancora c’è molto da fare. Ma se penso che oggi ci sono più persone nei musei che negli stadi, è sorprendente. A marzo sono stato ad ARCO Madrid: dopo un paio d’ore in fiera sono venuto via, era così affollata da rendere difficile la circolazione. Poi mi sono informato sui numeri. In cinque giorni, 65mila visitatori. Incredibile.
Il successo di una fiera non si misura più solo dalla soddisfazione delle gallerie, dunque?
Oggi le cose sono cambiate, le fiere ricercano le gallerie migliori anche nell’ottica di soddisfare il pubblico, di creare un evento che sia gradevole prima di tutto per i visitatori. Credo sia l’approccio giusto.
Tutto questo ha reso il suo lavoro più facile o più difficile?
L’allargamento dei confini e la demografia eterogenea è sicuramente un impegno e uno stimolo in più. Ci sono tante cose che non conosco, nuovi linguaggi artistici da scoprire e studiare. Devi dedicarci del tempo.
Distingue i progetti in base a dove saranno esposti?
No, noi rappresentiamo gli artisti e li esponiamo ovunque, senza differenza. Non facciamo calcoli su cosa e dove può funzionare meglio. Gli artisti se arrivano da noi è perché hanno qualità, poi nostro compito trasmetterla nei vari contesti. Non ci arrendiamo se al primo tentativo una proposta non funziona.
Il mercato dell’arte è un mercato sicuro?
Penso che sia sano di per sé, perché credo che il cuore del mercato dell'arte sia ancora costituito da persone molto responsabili di ciò che fanno. Penso che ci sia molto rispetto.
Non teme bolle speculative?
C’è sempre il rischio che si formi una bolla, ma penso sia sopravvalutato. Soprattutto in Europa, dove molti collezionisti acquistano mossi esclusivamente dalla passione. Gli speculatori li identifichi in un attimo. Soprattutto in un contesto come quello odierno, dove tutto si muove più lentamente, c’è meno spazio per operazioni speculative. Fino a tre anni fa il pericolo era maggiore. Ora mi sento abbastanza a mio agio con i tempi.

Lucio Fontana, Concetto spaziale, Forma, 1957 © Fondazione Lucio Fontana, Milano, by SIAE 2025
Così a suo agio che ha già accennato all’apertura della galleria di Milano come una scelta passionale, più che finanziaria.
Esatto, non abbiamo aspettative chiare riguardo al contesto di mercato che ci aspetta. Ci basta sapere che quando ne abbiamo parlato ai nostri artisti, tutti erano entusiasti di esporre in Italia. Dando seguito, in molti casi, a varie partecipazioni alla Biennale di Venezia nelle ultime edizioni. La mia ambizione personale è sempre stata di creare la «galleria europea definitiva», e Thaddaeus Ropac non può diventarlo senza uno spazio in Italia, che è stato da sempre un Paese importantissimo nella produzione artistica, anche quella contemporanea. Anche allargando la prospettiva a Roma, Napoli, Firenze. Ma la città che è di gran lunga più attiva, oggi, è sicuramente Milano. Non solo per le potenzialità economiche, ma anche per il terreno culturale su cui poggia: dal Novecento fino ad oggi le operazioni artistiche più importanti sono andate in scena qui. Come muoverci esattamente sul mercato, lo impareremo. Non sapevamo molto del mercato coreano quando siamo andati a Seul, ma sapevamo che era il centro culturale del Paese. Questo è l’importante, e vale anche per Milano.
Crede che il vostro arrivo possa stimolare altre gallerie internazionali a seguirvi?
Non saprei, ma se dovesse accadere ne sarei felice. Già alcuni player del sistema si stanno spostando da Londra a Milano, che sta guadagnando rilevanza nella geografia del sistema dell’arte europeo. Ma è una tendenza emersa solo dopo la nostra scelta di aprire una galleria qui, di cui però sono contento. Sentiamo di essere nel posto giusto al momento giusto.
Può anticiparci qualcosa del progetto espositivo?
Il disegno è quello di proporre qualcosa di nuovo per Milano, di esporre artisti che non hanno mai avuto una mostra in Italia, o che l’hanno avuta molti anni fa. Vogliamo realizzare un programma che arricchisca il panorama artistico locale. La mostra inaugurale mette in dialogo Georg Baselitz e Lucio Fontana, due artisti distanti nel tempo ma uniti da una tensione condivisa verso il superamento della superficie pittorica. Del primo ci sarà una scultura monumentale e una serie di ritratti, mentre del secondo alcune opere rappresentative dei suoi cicli più celebri, come «Concetti spaziali» e le «Attese». Non sarà un omaggio dell'uno all'altro, quanto più una doppia personale.
Cosa la spinge, dopo oltre quarant’anni, a impegnarsi in nuovi progetti?
La costante fiducia degli artisti che seguiamo, alcuni dei quali sono i più importanti del nostro tempo. Rappresentarli è un privilegio incredibile. Vederli realizzare le loro opere e poterle esporre mi spinge a continuare a lavorare, convinto che alcune di queste finiranno nei libri di storia dell’arte. Essere parte attiva di questo processo mi dà grande motivazione.
Le gallerie continuano a svolgere un ruolo chiave nel sistema?
Sotto questo aspetto non è cambiato assolutamente nulla e credo che non cambierà ancora a lungo. Anzi, oggi una galleria può proteggere e supportare gli artisti come non mai, offriamo uno standard di infrastrutture e servizi che non esistevano prima.
Chiudiamo, se è possibile, con un’anticipazione di ciò che proporrete ad Art Basel.
Seguiremo la strategia che adottiamo la maggior parte delle volte, con una combinazione di opere storiche e di nuovi lavori, usciti direttamente dallo studio degli artisti. Sarà una mostra collettiva fondata sul dialogo e l’equilibrio tra le sue componenti.