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Leonardo Merlini
Leggi i suoi articoliLa tipologia è un problema. Una visione del mondo che oggi ha più ombre che luci. La classificazione, il controllo, la manipolazione, il potere di ordinare per dominare, la creazione di genealogie che poi generano tirannide e violenze. La tipologia è un rischio, ma risponde anche a un desiderio di conoscere per allargare gli orizzonti del mondo, oppure a una forma sottile, ma radicale, di libertà. La libertà di non essere solo la “qualità unica” della massa globale all’epoca del pensiero standardizzato digitale, ma di rivendicare, pur all’interno di un Grande Schema, l’esistenza della caratteristica individuale. In questo senso il catalogo teoricamente infinito di August Sander che voleva fotografare gli Uomini del Ventesimo secolo poteva essere sia l’anticamera del capitalismo della sorveglianza dentro il quale oggi viviamo, sia il grande spazio di affermazione di una irriducibile individualità, anche sotte le divise, i ruoli e l’illusione positivista (ma pure biblica) di dare un nome definito e definitivo a ogni cosa, comprese le persone, che qui sono ritratte spesso in relazione al proprio lavoro o ruolo nella società, anche questa, a ben guardare, una forma di gabbia. Quell’individualità, per esempio dei tre contadini in abiti eleganti diventati una delle grandi immagini del secolo passato, oggi è quello che sentiamo di dover preservare e difendere e guardare ancora più attentamente (e forse anche disperatamente).
L’avverbio può sembrare il meno apparentemente adatto a descrivere la mostra «Typologien», che la storica dell’arte e direttrice del Museum MMK für Moderne Kunst di Francoforte Susanne Pfeffer ha curato per Fondazione Prada. Il progetto ha portato la fotografia negli spazi più nobili della sede di Largo Isarco a Milano, dove normalmente sono allestite le più importanti mostre di arte contemporanea, e ha provato a ricomporre una classificazione dei fotografi che hanno - in modi ovviamente molto diversi - lavorato sul tema della stessa classificazione per immagini. Ma, per tornare all’avverbio disperatamente, qui lo possiamo declinare sia sotto forma di frustrazione per ogni tentativo di “catalogare tutto” - il popolo tedesco, le tipologie di piante e fiori, l’idea di famiglia, i volti delle persone uccise in modo violento - sia per la sensazione di soffocamento e di orrore profondissimo che si genera dall’uso delle tipologie come base per teorie razziste fatto nella Germania nazista, che ha avuto come conseguenza i campi di sterminio, documentati nell’«Atlas» di Gerhard Richter. Perché poi la mostra è, in fondo, la storia della fotografia tedesca del XX secolo, e in quanto tale è anche storia di una crisi. Ma pure una riflessione sulla società e sul modo nel quale i fotografi hanno guardato in faccia la complessità di un presente da cui a un certo punto è sembrato impossibile uscire.

Exhibition view di «Typologien: Photography in 20th-century Germany». Photo: Roberto Marossi

Exhibition view di «Typologien: Photography in 20th-century Germany». Photo: Roberto Marossi
Come ha notato John Berger, esiste «una profonda, centrale organicità della fotografia al capitalismo industriale. Marx divenne maggiorenne l’anno in cui fu inventata la macchina fotografica». E quando, tra le due guerre, la fotografia diventa il modo stesso di pensare alle immagini, «fu allora - scrive ancora Berger - che si sostituì al mondo come sua testimonianza diretta». Le immagini di Typologien sembrano guardare in modo più laterale a questa prospettiva, lo fanno cercando di essere in un certo senso neutre, inappuntabili e prive di giudizio. Le strutture industriali fissate da Bernd e Hilla Becher, coloro che hanno ripreso la lezione di Sander e di Karl Blossfeldt (magnifiche le sue immagini botaniche) e l’hanno fatta diventare accademica e, per molti versi, calvinista (anche qui, se volete, c’è un altro possibile richiamo alla relazione con il capitalismo), quegli altiforni o cisterne rispondono a una visione che crede nella possibilità di una oggettività pura, che nella tipologia ci appare anche alla ricerca di una presa di distanza dalla storia. Se, come diceva Adorno, dopo Auschwitz non era più possibile la poesia, le immagini dei Becher ci sembrano dire che non è più possibile neppure una fotografia compromessa con l’umano. Solo una ricognizione impersonale, che mette al bando perfino il cielo, che nelle immagini dei due professori di Düsseldorf è niente più che uno sfondo bianco, quasi fosse un telo artificiosamente steso alle spalle degli edifici.
Ma la fotografia, come ha scritto Susan Sontag, è «una visione del mondo che nega la connessione e la continuità» e «che conferisce a ogni momento il carattere di un mistero». Il mistero che in qualche modo l’idealtipo topologico provava a eradicare, magari in nome di una razionalità che la storia tedesca ed europea aveva così drammaticamente visto naufragare, torna però nella mostra di Fondazione Prada grazie al lavoro di un artista come Hans-Peter Feldmann e il suo uso concettuale delle immagini, ma pure nelle biblioteche di Candida Höfer e nei musei di Thomas Struth, per non dire delle fotografie colossali e costruite di Andreas Gursky, allievi dei Becher che hanno digerito la lezione dei due docenti e poi se ne sono liberati, dando spazio al colore e, talvolta, perfino alle persone. Con loro la fotografia diventa arte contemporanea nel modo più definitivo, anzi, sono loro a porre il paradigma della forma mentale di questa presenza del medium fotografico ormai per noi così naturale. Recentemente, in occasione di una sua antologica a Brescia, il grande fotoreporter americano Joel Meyerowitz si è definito come qualcuno che ha danzato sul mondo: nelle immagini di Höfer e Struth e Gursky non si balla, ma il loro modo di usare la fotografia è come se fosse la danza stessa. E il riferimento tipologico appare come una sorta di coreografia, codificata proprio per essere qualcosa di altro, qualcosa di più. Per liberare, attraverso lo schema, quelle energie che poi vanno ad alimentare la sensazione di mistero della Sontag, un mistero così limpido in tante delle immagini in mostra a Milano da renderci difficile credere che nasca da quel desiderio profondo di classificazione da cui siamo partiti. E forse il modo migliore per calarsi del tutto dentro «Typologien» è fermarsi, alla fine, davanti ai grandi ritratti di Thomas Ruff e lasciare che quei volti comuni e anonimi ci parlino del ritorno dell’umanità, con tutta la sua insondabile fragilità, prima che nel cielo appaia, per l’ultima volta, il volo dei Concorde di Wolfgang Tillmans con il loro fragore silenzioso che porta via la storia di un sogno aeronautico e del desiderio irraggiungibile di un mondo razionale.