Il teorico queer Paul B. Preciado descrive il corpo del soggetto contemporaneo come un «somatheque»: un apparato organico e stratificato regolato da regimi biopolitici che riflettono nozioni normative di classe, genere, etnia e sessualità. È attraverso l’arte e la produzione culturale che l’individuo è in grado di snaturare e superare l’idea di somatheque, allo scopo di plasmare narrazioni corporee e identitarie alternative. «Unruly Bodies», la collettiva al Goldsmiths Cca dal 30 giugno al 27 agosto, si ispira a tale riflessione, presentando opere di artisti contemporanei che rappresentano il corpo «altro»: quello mostruoso, fluido o grottesco.
Sono 13 gli artisti coinvolti, tutte donne e non binary, che attraverso pittura, scultura e gestualità raffigurano corpi soggetti a tumulti emotivi e vittime dei regimi repressivi del patriarcato, della misoginia e dell’abilismo. È qui che il corpo ribelle, l’«unruly body», emerge e viene a galla, spezzando la pelle levigata della società normativa.
Tra le opere in mostra, i dipinti di Miriam Cahn, che rappresentano nebbiosi corpi-fantasma, e le figure disarticolate di Shadi Al-Atallah dagli arti distorti e accavallati. L’italiana Giulia Cenci presenta «Dry Salvages» (2023), cabine docce abitate da figure a metà tra spettri e alieni: l’acqua, oltre che simbolo di vita, qui diviene allegoria della regolamentazione sociale, a scapito del singolo e della privacy.
Clémentine Bedos, Holly Hunter, Verity Coward e Assia Ghendir, nel loro progetto «Metamorph», reinventano il mito di Dafne, la ninfa che si tramuta in un albero d’alloro per sfuggire allo stupro di Apollo. Qui Dafne assume una prospettiva contemporanea: è un corpo queer e oltreumano, che sfugge a definizioni e categorie culturali. Tra le altre artiste in mostra, Camille Henrot, Galli, Frida Orupabo e Paloma Proudfoot.