Luca Lo Pinto, il cui incarico di direttore del Macro è stato prorogato sino a fine 2023, mantiene salda la rotta del suo programma incentrato sull’immaginazione e il coinvolgimento attivo dello spettatore. Dal 9 marzo al 21 maggio, nella sezione «Aritmici», apre una retrospettiva su Hervé Guibert curata da Anthony Huberman, direttore della newyorkese John Giorno Foundation.
Fotografo, scrittore, regista, critico fotografico per «Le Monde», Guibert divenne una sorta di mito battendosi per responsabilizzare la società nei confronti dell’Aids, che fu la causa della sua morte a 36 anni nel 1991, una vicenda che affrontò con straordinaria consapevolezza come uno «strumento di autorivelazione». Ne raccontò nel romanzo All’amico che non mi ha salvato la vita, in cui narra anche l’agonia del filosofo Michel Foucault, del quale fu amico profondo, e nel film autobiografico «La Pudeur ou l’impudeur», girato poco prima della sua scomparsa.
Appassionato del cinema di Antonioni, Pasolini e Fellini, trascorse molto tempo in Italia lavorando e ora riposa nel cimitero di un eremo dell’isola d’Elba. Al Macro sono esposte opere fotografiche incentrate su stanze vissute, per lo più eseguite negli anni ’80. Se la persona umana vi è assente o colta parzialmente, è forte un legame intimo, inquietante con ciò che si avverte restare fuori dall’inquadratura.
Dal 17 marzo al 27 agosto, per la cura di Lo Pinto e Wolfgang Tillmans, la sezione «Polifonia» esplora il lavoro del pittore tedesco Jochen Klein (1967-97), impegnato nell’attivismo sociale e morto anche lui di Aids. La sua pittura tratta interni sontuosi, paesaggi e altri soggetti stereotipati ma attraversati da una vena ambigua, disincantata. Ad approfondire la conoscenza della sua ricerca intervengono opere di Julie Ault, Thomas Eggerer, Ull Hohn, Tillmans, che fu il suo compagno, e Amelie von Wulffen.
Sempre il 17 marzo (fino al 27 agosto), nelle sezioni che trattano musica, editoria e design inaugurano «Beethoven Was a Lesbian», dedicata alla musicista e teorica Pauline Oliveros, pioniera della pratica del «deep listening», ovvero dell’ascoltare con tutto sé stesso quello che si sta facendo, mescolando forme diverse d’arte; «What, why WET?», che indaga la rivista «WET» (1976-81), ideata da Leonard Koren, anticipatrice degli stili di vita di Venice California negli anni ’70, miscela di arte, musica, nudità leggera, moda e pubblicità per boutique losangeline di tendenza; infine un focus sulla produzione dello Studio Temp, fondato dal designer poco più che ventenne a Bergamo nel 2007, che collabora con la moda internazionale.