Kengo Kuma (Yokohama, 1954), tra i più importanti architetti giapponesi, utilizza i materiali anche in funzione della loro capacità emotiva e sempre guardando alla tradizione costruttiva orientale. «Kengo Kuma. Onomatopoeia Architecture», a cura di Chizuko Kawarada e Roberta Perazzini Calarota, quest’ultima titolare della Galleria d’Arte Maggiore g.a.m. di Bologna, è il titolo della mostra a lui dedicata e organizzata durante la 18ma Mostra Internazionale d’Architettura presso Acp-Palazzo Franchetti (fino al 26 novembre).
Il cuore della rassegna è ispirato al fenomeno dell’onomatopea, l’atto di creare o usare parole che includono suoni simili ai rumori a cui si riferiscono, per l’occasione declinato attraverso l’utilizzo di materiali (di recupero) come legno, carta e metallo «rivissuti» attraverso i sensi. I lavori esposti sono di varie tipologie, compresa una grande struttura temporanea in alluminio nel giardino interno dell’edificio lungo il Canal Grande e 22 maquette dei suoi edifici più celebri: il Victoria & Albert Museum di Dundee in Scozia (2018), il Museo d’Arte della Prefettura di Nagasaki (2005), il Museo d’Arte Suntory a Tokyo (2007) e numerosi altri. Il percorso ben trasmette l’approccio progettuale dell’autore, capace di legare aspetto tattile e sensoriale alla sensibilità per il ritmo e per il «flow», oltre alla leggerezza e all’evanescenza, caratteri tipici del suo operare.
Al secondo piano nobile dello splendido palazzo gotico, la Galleria d’Arte Maggiore g.a.m. ha aperto la sua prima Project Room, nuova sede dello spazio bolognese. A inaugurare il nuovo corso è la mostra «Light-Space-Shadow. Morandi’s Objects di Joel Meyerowitz», visitabile sino al 31 luglio. Lo street photographer Joel Meyerowitz, pioniere della fotografia a colori, ha immortalato una serie di oggetti nello studio di Giorgio Morandi a Bologna.
Ogni scatto è frutto di uno studio preciso sulla posizione e sulla luce cosicché «ogni oggetto risulta intriso di presenza fisica e di una distintiva timida sicurezza», per dirla con la curatrice Amanda Renshaw. Grazie al suo lavoro, il fotografo statunitense fornisce inediti strumenti di comprensione dell’opera dell’emiliano, abile nel trasformare i suoi soggetti «in qualcosa di elusivo, intangibile e fuori dal tempo».