Prosegue fino al 31 luglio la prima edizione di Artlab Eyeland un ambizioso progetto artistico e laboratoriale che racconta come la città di Taranto si stia trasformando. Una narrazione che ha visto la presenza di numerosi artisti strutturata attraverso laboratori, esposizioni diffuse e workshop. Per l’occasione abbiamo intervistato Caos, nome d’arte di Dario Pruonto, classe 1992. Nato e cresciuto a Milano, città certamente ricca di stimoli, ma anche di troppa pubblicità e di comunicazione di ogni genere, Caos è oggi un punto di riferimento della poesia di strada italiana. Presente a Taranto dal 29 maggio al 15 giugno, l’artista ha coinvolto oltre trenta persone nella realizzazione di un intervento poetico dal titolo «Quali nostalgie stiamo preparando per il futuro?».
Una poesia in cui ogni verso è stato posizionato in un punto strategico della Città Vecchia e realizzato utilizzando ogni volta una tecnica diversa che richiama a gestualità tipiche del vivere quotidiano tarantino. Dal pulire il polverino (polvere rossa di scarto prodotta dall’industria siderurgica locale) dai balconi nel rione Tamburi, a quello di «scrivere i muri» a pallonate tra i vicoli dove i bambini giocano a calcio in strada, fino a quello di scrostare le pareti fatiscenti dei palazzi abbandonati nel centro storico. La sua è un’opera costruita su misura per non risiedere in nessuno spazio, un lavoro che si muove alla ricerca delle risposte che lo spazio pubblico può dare alle persone che vivono la Città Vecchia di Taranto. Un lavoro che prova a rallentare la radicale trasformazione che questo luogo sta subendo, per conservare quegli stimoli identitari capaci di saturare con l’inconsueto le porosità del quotidiano.
Qual è stata la sua motivazione principale per partecipare alla residenza artistica a Taranto e come ha strutturato il progetto?
Taranto è stata l’opportunità perfetta per sviluppare la ricerca, con cui da tempo cerco di attivare processi di produzione artistica il più partecipati possibile. Per far ciò, mi pongo come strumento per la comunità prima ancora che come artista o poeta. Il mio lavoro negli anni sta cercando sempre più di integrarsi nei contesti e a dialogare veramente con i territori, abbandonando forzature estetiche o dinamiche invasive. In modo abbastanza spontaneo si sta spostando più verso la concezione contemporanea di arte pubblica che usa come vettore comunicativo la poesia, facendosi contaminare con le modalità e le tecniche di progettazione culturale partecipata. A Taranto ogni parola della poesia è stata concordata, spiegata e letta a tutti. Ogni luogo è stato scelto dopo lunghe passeggiate e dibattiti. Ormai quello che faccio non è più poesia di strada, ma al contrario cerco di raccogliere la poesia che la strada pronuncia. Parlo coi muri e viceversa. Taranto è una delle vette più interessanti dove sono arrivato a sperimentare questi processi che inevitabilmente, modellandosi sulle dinamiche intrinseche dei luoghi, sono sempre diversi e da scoprire. La residenza è stata un’opportunità per rallentare, prendersi tempo, ascoltarsi e non semplicemente sentirsi, esplorando con il tempo necessario tutte quelle sfaccettature di una città in continuo mutamento. Un’esperienza in cui gli abitanti sono state guide, riferimento, compagni, ma prima di ogni altra cosa amici che hanno deliberatamente deciso di vibrare in modo coeso in un percorso che ha legato tutti intorno allo stesso fuoco.
In che modo ha coinvolto attivamente i cittadini di Taranto nel processo creativo?
Il contatto con loro si potrebbe riassumere con una delle battute che ci siamo scambiati il primo giorno di residenza: Se non vivo, cosa scrivo. Ecco, a loro ho chiesto di farmi vivere veramente quel luogo. Siamo stati a bere birra insieme in circoli privati nascosti tra i vicoli, a parlare con i pescatori che uscivano dal porto alle quattro del mattino, abbiamo visto il sole tramontare incandescente per colpa dell’inquinamento causato dall’ex Ilva, o pianto con i figli persone morte a causa di malattie correlate alla fabbrica. Mi sono preso «male-parole» da persone più radicali e meno inclini al cambiamento, e abbracci improvvisi da sconosciuti dopo una semplice chiacchierata.
Quali sono i principali temi o concetti che ha voluto esplorare attraverso la sua arte durante la residenza?
Sono arrivato a Taranto scevro da ogni possibile informazione. Non ho letto né googlato nulla. Anche se da sempre i miei lavori confluiscono in un intreccio tematico a metà tra confine, relazione e incomunicabilità, l’idea è stata quella di farsi guidare dalle persone a trovare la scelta tematica più sentita. La nostalgia e la precarietà rispetto a un futuro imminente sono emerse praticamente subito e in modo assolutamente spontaneo e corale. Questo ha indirizzato in modo naturale tutto il lavoro verso quel sentire comune.
Quali sono stati gli ostacoli o le sfide che ha affrontato durante la realizzazione del progetto di arte partecipata?
Una delle difficoltà principali è quella di far immergere chi prende parte a questi processi in una ricerca artistica, e ancora prima in visione estetica, etica e politica, che si è strutturata in dieci anni. Ancora più difficile forse è aprire questa ricerca e questa visione alle parole di chi non ha mai masticato poesia o arte pubblica. L’ostacolo più grande, che è anche la più grande ricchezza di lavorare con le comunità, è il riuscire a concedersi la possibilità di rendersi capaci a vicenda, anche e soprattutto con chi con l’arte non ha niente a che fare. A Taranto è stato complesso tenere insieme il filo di tutto perché la città, seppur sulla stessa lunghezza d’onda, è molto divisa su quello che sta accadendo.
Quali sono le tue speranze e aspettative per il futuro di Taranto come centro artistico e culturale?
Le mie aspettative e le mie speranze contano relativamente poco in confronto al sentire dei tarantini. Il mio auspicio è che questa trasformazione culturale e artistica che la città sta vivendo si intrecci fortemente con le pratiche dal basso che sono la linfa vitale della Città Vecchia. Il mio augurio è che tutta questa ventata fresca passi in qualche modo attraverso loro, e che loro si lascino attraversare da questo vento. Una pratica di contaminazione per rendersi capaci a vicenda. Se tutto questo non avviene il rischio è che si avrà un luogo simile a moltissimi altri, con un modello culturale imposto, una città vetrina senza anima dove trascorrere qualche ora scendendo da una crociera, bere una cosa e guardare una mostra qualsiasi. A Taranto spero di tornarci presto, non necessariamente per lavorarci o fare un altro progetto. Tornarci anche solo per attraversarla e rivivere il posto dove sono arrivato da artista e me ne sono andato da amico.