Luce, suono e spazio. Sono i tre concetti chiave dello Spazialismo, teorizzato da Lucio Fontana con il «Manifiesto blanco», scritto a Buenos Aires nel 1946. Fontana, come ha scritto Gillo Dorfles, «voleva un’arte capace di trascendere i limiti della superficie della tela per estendersi in una dimensione più vasta, un’arte creatrice di atmosfera trasmissibile nello spazio mediante i nuovi ritrovati della scienza e della tecnica».
Sono nati così i tagli, i buchi, i neon e le stanze bianche da lui creati tra la fine degli anni Quaranta e il 1968. Un periodo preso in esame dalla mostra «Lucio Fontana. La sua ombra lunga, quelle tracce non cancellate», curata da Giovanni Granzotto e Leonardo Conti al Museo Archeologico Regionale, visitabile dal 13 aprile al 22 settembre.
Venti opere di Fontana fra tele, carte e ceramiche, sono esposte accanto a lavori di numerosi colleghi che ne hanno approfondito temi e ricerche, da Piero Manzoni ad Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, Alberto Biasi, Gianni Colombo, Tancredi, Roberto Crippa, Giuseppe Santomaso, Ettore Spalletti, Nunzio e molti altri.
Spazi concavi e convessi, superfici monocrome, tensioni, estroflessioni, movimenti meccanici e giochi di luci e ombre sono alcune delle tante declinazioni che lo Spazialismo ha assunto dopo Fontana, senza mai perdere di vista quella ricerca dell’infinito per cui la tela è solo un pretesto. Perché, come disse una volta lo stesso Fontana: «L’arte rimarrà eterna come gesto, ma morrà come materia».