L’attesissima mostra (la prevendita dei biglietti è iniziata mesi fa) che la Berlinische Galerie gli dedica fino al 22 gennaio, non riguarda la pittura di Edvard Munch in senso stretto e nemmeno una sua particolarità stilistica, quanto il rapporto assolutamente esclusivo che il pittore norvegese di Ådalsbruk (1863-1944) seppe instaurare, suo malgrado, con la scena intellettuale e artistica berlinese nei circa vent’anni in cui vi dimorò e poi nei successivi quando, dopo averlo incoronato «grande artista nordico», il Terzo Reich lo declassò alla schiatta reietta degli artisti degenerati.
Detto questo, è facile capire che il titolo di questa mostra, «Edvard Munch. Magia del Nord», è provocatoriamente sviante in quanto sfida il pubblico degli adoratori a prescindere a comprendere un grande malinteso storico e, smascherato quello, la poderosa ventata di aria fresca, di rivoluzionaria modernità che Edvard Munch portò a Berlino in un’epoca in cui i tedeschi si aspettavano da un pittore nordico solo paesaggi romantici di fiordi.
«Magia del Nord» è infatti la celebre espressione coniata dallo scrittore Stefan Zweig per descrivere in modo alquanto stereotipato quei contenuti e quelle aspettative che, quando arriva a Berlino nel 1892 e al «Verein Berliner Künstler» gli organizzano una personale senza nemmeno guardarne le opere, Munch,
coi suoi colori pazzi sparati a zero in mondi pittorici psichicamente condensati, non poteva che deludere.
In mostra circa 80 opere sue e di artisti come Walter Leistikow e Akseli Gallen-Kallela che hanno plasmato l’idea del Nord e la scena artistica moderna nella capitale fin de siècle: raccontano insieme a stampe e fotografie la storia di Munch a Berlino che rimase per lui negli anni 1892-1933 una delle sedi espositive più importanti d’Europa.