Creare uno spazio di sperimentazione aperto alla danza dell’inimmaginabile e capace di incarnare movimenti che trasformino in esistente ciò che apparentemente non esiste. Con questo intento ambizioso prende il via, dal 6 settembre al 10 dicembre, la 35ma edizione della Biennale di San Paolo.
Il titolo «Coreografie dell’impossibile» enuncia il desiderio di sondare la natura enigmatica del fatto artistico, gli aspetti misteriosi e segreti ad esso connessi, generando nuove frazioni, forme e immagini. Un’ode alla libertà per ripensare la categoria dell’impossibilità. Rinunciando alla nomina di un capocuratore e privilegiando una struttura orizzontale anziché gerarchica (la stessa scelta era stata attuata nelle precedenti edizioni del 1989, 2010 e 2014), la rassegna brasiliana si avvale quest’anno di un team curatoriale composto di quattro figure differenti: Manuel Borja-Villel, storico dell’arte ed ex direttore del Reina Sofía; Grada Kilomba, artista multidisciplinare, scrittrice e teorica; Diane Lima, curatrice indipendente, scrittrice e ricercatrice; Hélio Menezes, antropologo, critico e ricercatore.
Una Biennale d’arte aperta a molteplici voci e discipline, tra cui la musica, la danza e il cinema, che raccoglie 120 artisti selezionati secondo il criterio guida dell’impossibilità. Spiegano i curatori: «I partecipanti a questa Biennale sfidano l’impossibile nelle sue forme più svariate e imprevedibili. Vivono in contesti impossibili, sviluppano strategie di elusione, oltrepassano i limiti per fuggire alle impossibilità del mondo in cui vivono. Si interessano ai temi della violenza, delle limitazioni della libertà, delle disuguaglianze e le loro espressioni artistiche sono plasmate dalle stesse impossibilità che caratterizzano il nostro tempo».
Accanto a una cospicua rappresentanza brasiliana, anche molti artisti sudamericani e africani, tra i tanti provenienti da oltre 20 Paesi. Solo per citare alcuni nomi: Sonia Gomes (Brasile, 1948), Wifredo Lam (Cuba, 1902-82), Ibrahim Mahama (Ghana, 1987), Dayanita Singh (India, 1961), Santu Mofokeng (Sudafrica, 1956-2020), Ellen Gallagher (Stati Uniti, 1965), Yto Barrada (Francia, 1971). Nessuno per l’Italia, ad eccezione della recentemente scomparsa Elda Cerrato, artista e docente nata ad Asti nel 1930 e trasferitasi da piccola con la famiglia in Argentina, dove ha sempre vissuto e lavorato.
La nuova veste del Padiglione Ciccillo Matarazzo, sede della mostra, è frutto dello studio brasiliano di architettura e design Vão, che ha chiuso per la prima volta nella storia l’ingresso centrale del padiglione: il pubblico può esplorare lo spazio in modo nuovo ed esperire un nuovo approccio relazionale alle opere esposte. Un invito a muoversi in assenza di una sequenzialità progressiva e lineare del tempo, per dare forma, ciascuno a proprio modo, al possibile che si cela tra le pieghe dell’impossibile.