Dal 30 settembre al 4 febbraio 2024 il Museo Novecento e Palazzo Vecchio ospita «Temptations, Torments, Trials and Tribulations», la mostra di Cecily Brown (Londra, 1969) a cura di Sergio Risaliti. 30 lavori perlopiù inediti, nati da una riflessione attorno al tema delle «Tentazioni di sant’Antonio». Abbiamo intervistato l’artista.
Cecily Brown, che cosa l’ha più interessata di questo tema?
Penso che l’idea delle tentazioni e dei tormenti sia proprio ciò che significa essere umani. La storia di sant’Antonio parla di follia, di un mondo che si è smarrito, instabile, calato nel conflitto tra il bene e il male, tra il dubbio e la fede. E ciò è più che mai attuale. Siamo in un’epoca incredibilmente assurda e credo che sant’Antonio possa essere l’archetipo umano della lotta per l’esistenza: come può la vita essere così meravigliosa e allo stesso tempo così brutale? Mi attrae inoltre l’idea dell’eremita. Penso sempre che tutto stia accadendo nella sua testa e mi interessa l’idea di dare una forma all’orrore interiore: anche questo è molto attuale. Stando poi su un piano più basso, io stessa ho una sorta di tentazione ogni cinque minuti della giornata: magari cerco di smettere di fumare o di non mangiare un biscotto. Penso al modo in cui monitoriamo noi stessi nel vivere quotidiano.
Il tema delle «Tentazioni di sant’Antonio» è stato trattato da vari artisti nei secoli: Bosch, Pisanello, Sassetta, Michelangelo fino a Morelli, Cézanne, Redon e Dalí. Ha tratto ispirazione da quelle opere?
Fin da quando mi ci sono imbattuta la prima volta, mi sono interessata molto alla composizione, al colore e agli aspetti formali che hanno a che fare con l’essere una pittrice. Ho preferito le opere in cui questi aspetti e il significato sembrano perfettamente coniugati, per esempio in Bosch, Grünewald e Michelangelo. Mi ha colpito in particolare la figura centrale tirata in molte direzioni dai demoni, una forza centrifuga, come nella copia che Michelangelo, a quindici anni, trae dall’incisione di Martin Schongauer. Ho sempre voluto che il mio lavoro avesse questa sorta di tensione fisica ed è quasi come se fosse impresso nel mio cervello pittorico. Ogni dipinto è una sorta di visione. Anche la surrealista Leonora Carrington ne ha tratto una versione che mi è piaciuta molto.
Qual è il suo rapporto con le iconografie dell’arte antica?
Sono sempre più interessata agli archetipi. Ho sempre voluto dipingere cose comprensibili a tutti, ma sono attratta da soggetti e immagini che risuonano oggi come risuonavano centinaia di anni fa o più. Rifiuto l’idea di vecchio e nuovo perché ho sempre pensato che il mio modo di guardare le cose come pittore non tracciasse davvero quelle distinzioni: posso guardare l’«Ultima Cena» di Leonardo e restarne abbagliata, poi il Cenacolo di Warhol, ma non mi sembra di guardarli in modo diverso. È piuttosto una sorta di atteggiamento da gazza che si limita a prendere ciò che è utile per sé.
La mostra è allestita nel Museo Novecento, ma una sua opera è nel Camerino di Bianca Cappello in Palazzo Vecchio: in questo caso si usa parlare di «dialogo» con l’antico. E così?
Preferirei sostituire con la parola «conversazione». Io penso all’arte come a un’attività sempre viva e non voglio mai avere l’impressione di rivangare il passato o che il nuovo possa ravvivare il vecchio e viceversa. Non voglio appendere le mie opere fianco a fianco con quelle di antichi maestri, perché a Firenze si conosce bene il contesto in cui ci si trova, è come se tu nuotassi ubriaco di arte che resta impressa nella tua retina. Ho voluto che il mio lavoro, che ha un taglio quasi direttamente riferito all’arte del passato, desse la sensazione al visitatore di entrare in uno spazio pulito e più moderno. Le opere possono essere fianco a fianco nella tua testa. Nel Camerino di Bianca Cappello, una stanza meravigliosa e senza quadri alle pareti, ho voluto creare una sorta di momento giocoso: il mio quadro è infatti una donna su un letto. Sa, mi piace l’idea che Bianca abbia un quadro tutto suo.
Al Museo di Capodimonte ha affrontato il tema del «Trionfo della morte» nella mostra curata da Sergio Risaliti nel 2022: l’idea della mostra a Firenze era nata lì?
In realtà è stato il contrario, perché con Sergio parlavo di fare una mostra già da un paio d’anni; quella di Capodimonte è stata una sorta di assaggio del lavoro con lui, che mi ha dato piena libertà. I nuovi dipinti sono stati realizzati appositamente per Firenze ma si rifanno a mie litografie di anni fa. A volte ho interi corpi di lavoro che metto da parte senza esporli subito. Negli ultimi anni ho usato la stampa digitale su tela. La mia litografia di sant’Antonio l’ho fatta stampare su tela sei volte. E così ogni tela della mostra è partita dalla stessa immagine.
Qual è, nel suo lavoro, il rapporto tra disegno, pittura e litografia?
Il disegno è uno strumento quotidiano per me. Copio, imparo e conservo nella mia mente per un uso futuro. Così quando dipingo, anche se i disegni non li ho più guardati, è come se avessi le forme già pronte per l’uso. C’è un ottimo saggio sui miei disegni in una mostra tenutasi anni fa al Drawing Center di New York intitolato «Rehearsal». Si impara ripetendo e spesso sono l’immagine o il soggetto a richiedere ciò che è necessario per realizzarli: stamattina stavo copiando Poussin ad acquarello, ma il risultato era troppo vago e ho preferito passare al carboncino.
A volte viene citato l’Espressionismo astratto in relazione al suo lavoro. Lei che cosa ne pensa?
Ritengo Brice Marden, appena morto (e le cui origini erano nell’Espressionismo astratto), uno dei migliori pittori americani, ma io sono nata trent’anni dopo. Penso che per la mia generazione, soprattutto essendo inglese, non sia possibile ignorare la figurazione. Per me hanno significato molto artisti come De Kooning e Gorky, che non sono mai diventati completamente astratti. Nell’astrazione americana si tratta di svuotare tutto e la generazione che mi ha preceduto penso fosse tutta concentrata a sbarazzarsi dell’illusione: io amo l’illusione!
Tornando a Firenze, in questo momento il concetto di Rinascimento italiano è messo in forte discussione. Secondo lei nel Rinascimento ci sono significati importanti per la contemporaneità?
È molto positivo che venga messo in discussione, ma ora la gente vede gli aspetti più negativi del fatto che il Rinascimento è stato il momento in cui l’Europa ha iniziato a colonizzare il resto del mondo ed è problematico che venga presentata la visione dell’Europa come un centro di civiltà. Ma se ti interessa la pittura, ti interessano l’Italia e il Rinascimento italiano. Mi piace rivisitare il canone e penso che si debba avere una visione critica della storia, ma allo stesso tempo non c’è niente che io ami di più del Rinascimento. Raffaello e gli altri sono i vertici di ciò che gli esseri umani possono fare. Sono abbastanza conservatrice su ciò che è grande arte.
Tra i suoi contemporanei chi le interessa?
Mi ispirano cose comuni e molto diverse. Quando ero giovane mi sono appassionata al fumettista Milo Manara e l’ho copiato ossessivamente. Anche la grafica della «Settimana Enigmistica»: ho trascorso un mese a Venezia lavorando alla Biennale l’anno in cui ho lasciato il liceo artistico e ho imparato l’italiano grazie a quei fascicoli. Credo che non si veda nella mia arte perché mi concentro su grandi temi, ma sento che nella mia vita quotidiana non si tratta solo di vecchi con la barba. Nelle «Tentazioni di sant’Antonio» sono attratta dai demoni, specialmente da quelli di Michelangelo, perché hanno una sorta di qualità da copertina di album e l’idea dell’angelo su una spalla e del diavolo sull’altra è come fosse un cartone animato. Forse è questa la mia vena postmoderna, il bisogno di rimuovere qualcosa, è come dipingere non un albero ma il quadro di un albero di qualcun altro. Ti permette di guardare cose che non affronteresti nella vita di tutti i giorni.
Che rapporti ha con la musica?
Spesso do ai miei quadri titoli di canzoni e la musica è una parte importante del mio quotidiano. Il modo in cui dipingo è un po’ mutevole, ma è molto intuitivo, è una specie di jazz o, ancora di più, una danza, perché, soprattutto quando le mie opere sono molto grandi, penso che diventino quasi la traccia di una specie di danza, anche se la danza non lascia tracce fisiche. Mi è sempre piaciuta anche l’immobilità della pittura, ma paradossalmente sono ossessionata anche dal movimento, anche nel teatro. Amo tutto ciò che è artificiale e che può aiutare ad allontanarsi dalla vita reale. L’arte è ciò che ci aiuta a superare la vita e che la rende sopportabile.