Petrit Halilaj (1986) è il vincitore della 2a edizione del Mario Merz Prize. A convincere la giuria è stato un progetto pubblico ideato dall’artista kosovaro, ma italiano d’adozione, per Runik, città in cui è cresciuto. Iniziato con una performance presso le rovine del Centro di Cultura di Runik lo scorso luglio, il progetto si conclude con la personale «Shkrepëtima» nella Fondazione Merz dal 29 ottobre al 3 febbraio.
Com’è nato il progetto?
Sono andato nelle case dei cittadini di Runik per farmi raccontare le loro esperienze legate alla civiltà neolitica. Con la caduta della Jugoslavia e l’uscita del Kosovo, le persone hanno iniziato a costruire case sopra la zona archeologica. Durante queste interviste mi parlavano della vita prima della guerra. La città aveva un Centro di Cultura con una grande biblioteca, un teatro e un cinema; era un luogo di incontro che combatteva l’analfabetismo e diffondeva la cultura e la conoscenza dei diritti delle donne, un luogo multietnico che accomunava serbi e albanesi. Dopo la guerra il Centro di Cultura è diventato una discarica a cielo aperto nel centro del paese. Ho fatto una ricerca sugli articoli degli ultimi cinquant’anni relativi alla vita culturale di Runik. Volevo riportare la piazza ai cittadini attraverso le loro memorie. Con la Fondazione Merz ho organizzato workshop nelle scuole di Runik a cui ho donato un forno per creare le ocarine, oggetto neolitico con cui tutti ci identifichiamo, ma che dal 1997 si trova indebitamente nel Museo di Belgrado. Poi abbiamo invitato un compositore che insegnasse ai bambini a suonare l’ocarina.
Come si è svolta la performance?
È stata realizzata da una trentina di attori nel Palazzo del Centro di Cultura. Era la messa in scena del sogno di un ragazzo addormentato in un letto all’interno del Palazzo. Un gruppo di bambini e ragazzi suonavano l’ocarina e parlavano con il Palazzo. Il Palazzo si svegliava, scricchiolava e si illuminava. Poi i bambini e i ragazzi si trasformavano in uccelli. Il sogno riporta la realtà indietro, cambia l’idea di passato e di futuro.
Perché la metafora degli uccelli?
Il Kosovo è uno dei Paesi più isolati dei Balcani e dell’Europa, i suoi cittadini non possono viaggiare liberamente, ma vorrebbero fare parte della mappa mondiale. Non ho un punto di vista politico. Gli uccelli sono creature migratorie, una metafora del bisogno di migrare per sopravvivere. La migrazione non è una scelta. Un Paese non basta, né all’economia né agli individui.
È riuscito a restituire il Palazzo ai cittadini?
La partecipazione è stata enorme. Sono venuti anche il presidente del Parlamento e il ministro della Cultura. Il centro era stato messo in vendita dall’Agenzia della privatizzazione. Il Ministero d’intesa con il Comune ha restituito il Palazzo alla città, con l’impegno di ristrutturarlo
Come si traduce questo progetto alla Fondazione Merz?
Ci saranno i disegni che ho realizzato su fatture e documenti degli anni Sessanta-Novanta rinvenuti nel Centro di Cultura: sopra date e nomi di cittadini ho abbozzato le figure degli uccelli e di tutti gli elementi poi usati nella performance. Ci sarà un film che racconta la performance, il progetto e le interviste. Il percorso si aprirà con le ocarine che hanno svegliato il Palazzo, accanto vi saranno il letto e le rovine cadute a terra in 30 anni di abbandono. Questi resti però non saranno accatastati sul pavimento ma sospesi, vivranno nello spazio. Voglio portare il volume del Palazzo di Runik nella Fondazione Merz, creare una terza versione che sommi le loro storie.