«Icônes», ovvero opere emblematiche scelte tra quelle della Collezione Pinault per la loro capacità di rappresentare «sia la fragilità sia la potenza delle immagini e il loro carattere polisemico», ma anche per la loro capacità di «essere insieme apparizioni, illuminazioni, rivelazioni». «Icônes» è titolo della mostra visitabile nella Punta della Dogana dal 2 aprile al 26 novembre, a cura di Emma Lavigne, direttrice generale della Pinault Collection, e di Bruno Racine, direttore e amministratore delegato di Palazzo Grassi-Punta della Dogana.
Il gesto di Lucio Fontana, i quadrati in corten di Donald Judd, il segno nitido e ripetuto di Agnes Martin in dialogo con i riti ancestrali di David Hammons, lo Spazio luce di Francesco Lo Savio, la bandiera strappata e sgualcita di Danh Vo a fronte della luce dorata di Rudolf Stingel, le date di On Kawara faccia a faccia con la serie di teschi in vetro di Sherrie Levine, «La nona ora» di Maurizio Cattelan, lo studio per l’«Omaggio al quadrato» di Josef Albers: sono solo alcune delle tappe di un percorso che passa attraverso le visioni di Andrej Tarkovskij, scelto come nume tutelare di questa galleria che toglie dall’ambito religioso il concetto di icona per consegnarlo a una sacralità altra, insita nella capacità di riportare a una realtà trascendentale e di generare emozioni.
Una galleria che attraversa la seconda metà del ’900 per portarsi fino a noi composta ancora dalle opere di Edith Dekyndt, Arthur Jafa, James Lee Byars, Paulo Nazareth, Camille Norment, Roman Opalka, Lygia Pape, Michel Parmentier, Philippe Parreno, Robert Ryman, Dayanita Singh e Chen Zhen. «Sono opere che generano spazi come tante pause o luoghi di raccoglimento, nell’era della saturazione di immagini e della loro appropriazione indebita, scrivono i curatori. Dipinti viventi, riti e tutto ciò che fa dell’immagine uno spazio di relazione tra gli esseri umani e che li trascende».