«Untitled (The Subway)» di Mark Rothko (1937) (un particolare) © 1998 Kate Rothko Prizel Christopher Rothko Adagp, Paris, 2023 © Glenn

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«Untitled (The Subway)» di Mark Rothko (1937) (un particolare) © 1998 Kate Rothko Prizel Christopher Rothko Adagp, Paris, 2023 © Glenn

Attesissimo: Mark Rothko alla Fondation Vuitton

Tra le 115 opere esposte a Parigi anche le nove grandi tele realizzate per il ristorante Four Seasons di New York e donate dall’artista alla Tate di Londra

La prima grande retrospettiva in Francia da 25 anni dedicata al «maestro del colore» Mark Rothko, nonché una delle mostre più attese dell’autunno parigino, è presentata nella Fondation Louis Vuitton dal 18 ottobre al 2 aprile 2024: «La singolarità paradossale di Mark Rothko risiede nell’aver conferito una dimensione insospettata all’arte astratta, riuscendo a esprimere attraverso la sola astrazione “le emozioni umane fondamentali: l’estasi, la morte…”. Rothko ha sempre privilegiato in primo luogo il “soggetto”, che per l’artista è attinto dal profondo di ogni persona ed è comune a tutti, vale a dire ciò che lui chiamava “dramma umano”, “poignancy», osserva Suzanne Pagé, la direttrice artistica della Fondation Vuitton.

Suzanne Pagé, storica dell’arte alla testa della fondazione di Bernard Arnault dal 2006, è qui anche in veste di curatrice. Sua era stata anche la curatela della grande rassegna dedicata al pittore dal Musée d’Art moderne de la Ville de Paris nel 1999. Ora è affiancata da Christopher Rothko, figlio dell’artista, morto suicida nel 1970 quando lui aveva sei anni, e al cui impegno si deve la pubblicazione di «La realtà dell’artista» una raccolta di manoscritti in cui Mark Rothko, uno dei maggiori esponenti della cosiddetta Color field painting, corrente pittorica intimista sviluppatasi nell’ambito dell’Espressionismo astratto, espone la sua visione filosofica e artistica della realtà. Mark Rothko, il cui vero nome era Markus Rothkowitz, nacque nel 1903 a Dvinsk, nell’attuale Lettonia, che all’epoca faceva parte dell’impero russo, e all’età di dieci anni si trasferì con la famiglia di origini ebraiche a Portland, negli Stati Uniti (Oregon).

La mostra, in un percorso cronologico, espone 115 opere, con prestiti importanti dalla National Gallery of Art di Washington e il Whitney Museum of American Art di New York, ed europei, tra cui la Tate di Londra, la Fondation Beyeler di Basilea e il Musée national d’art moderne di Parigi. La Fondation Vuitton «riunisce un numero eccezionale di opere, più due serie altrettanto eccezionali, spiega Suzanne Pagé, la «Rothko Room» della Philips Collection e i nove dipinti della serie “Seagram Murals” della Tate Gallery di Londra, allestiti secondo il modello voluto dall’artista. Questa mostra permette innanzitutto di vedere veramente le opere e di comprenderle secondo le regole indicate in modo chiaro da Rothko. La sua opera, infatti, come lui stesso afferma, esige di essere guardata a lungo. Bisogna “penetrare” in essa, “prendere il rischio”».

In apertura è esposto il suo unico autoritratto, realizzato del 1936, quindi i paesaggi urbani degli anni Trenta, come le scene del metrò newyorkese, e ancora le serie a tema mitologico, influenzate dal Surrealismo e ispirate dalla lettura di Nietzsche e delle tragedie di Eschilo. Ma il periodo «classico» è quello maggiormente rappresentato in mostra, con 70 opere realizzate a partire dagli anni Cinquanta.

La svolta verso l’astrazione avviene nel 1946: «Il contesto degli anni Quaranta, la guerra, la Shoah…, nulla di tutto ciò lascia indenne Rothko, che infatti è sempre stato molto consapevole e impegnato nella realtà del mondo, osserva la direttrice della Fondation Vuitton. Ma dopo una fase figurativa in cui affermava di non riuscire a rappresentare “la figura umana senza mutilarla”, si prende una pausa dalla pittura. Ha quindi scritto un libro di riflessione pubblicato oggi con il titolo La realtà dell’artista. Non bisogna dimenticare che Rothko è infatti un grande intellettuale e uno studioso con nutriti riferimenti, in particolare nella filosofia e nella storia dell’arte».

La forza espressiva delle tele di grande formato a bande monocromatiche risiede nelle sole masse di colori vibranti: «Un dipinto non rappresenta un’esperienza. È l’esperienza stessa», diceva Mark Rothko. «Questa famosa dichiarazione di mio padre, ha spiegato Christopher Rothko, a margine della mostra, esplicita non solo la presenza reale del suo lavoro ma anche il ruolo centrale che svolge l’osservatore nella definizione dell’opera. L’arte non è qualcosa che ci viene riferito e che riguarda qualcun altro. È un processo in cui chi osserva è pienamente coinvolto. L’arte deve essere vissuta, è qualcosa, un oggetto/evento, che proviamo attraverso lo sguardo e che riguarda noi stessi. Non siamo l’oggetto dell’arte. Siamo il soggetto». Nelle sue opere astratte, continua Christopher Rothko, l’artista «crea uno spazio pittorico che, a dispetto del suo carattere misterioso, è diretto e palpabile. Un dipinto di Rothko è un oggetto, rappresenta la propria realtà. Si può perdonare all’osservatore di non percepire immediatamente la realtà di Rothko. Una delle chiavi è smettere di osservare la superficie dipinta. Guardate il dipinto. Guardate attraverso la tela. Mio padre non vi chiede di preoccuparvi di come l’ha realizzata, vuole che facciate l’esperienza di ciò che lui ha provato eseguendola».

Per Suzanne Pagé la mostra rinnova lo sguardo sul lavoro dell’artista «dando la possibilità di andare oltre una lettura troppo semplicistica e psicologizzante dell’uso dei colori, per cui i colori vivi starebbero a significare necessariamente la serenità, mentre Rothko dice, al contrario, di evocare piuttosto il “cataclisma”, lo “strappo”. A sua volta la serie “Black and gray” sarebbe necessariamente legata a uno stato depressivo. L’ultima sala chiarisce che Rothko utilizzerà fino alla fine i colori più vivaci. Quindi, per il numero di opere da un lato, e per le due “Rothko Room”, alle quali bisogna aggiungere l’ampia galleria di “Black and gray” presentata accanto alle grandi figure di Alberto Giacometti, e le ultime opere colorate, la mostra permette una lettura più ricca e nuova di Rothko». È esposta anche la serie di pitture murali realizzate per il ristorante Four Seasons di Manhattan nel 1958, ma mai consegnata. Nel 1969, l’artista donò nove di questi dipinti, sui toni del rosso profondo, alla Tate di Londra, che oggi le presta in via eccezionale a Parigi.

«You think my paintings are calm, like windows in some cathedral?, disse Rothko nel 1959. You should look again. I’m the most violent of all the American painters. Behind the color lies the cataclysm» («Pensi che i miei quadri siano calmi, come le vetrate di una cattedrale? Dovresti guardare meglio. Sono il più violento di tutti i pittori americani. Dietro il colore si nasconde il cataclisma»). Sembra che in questa frase si riassuma in poche parole la concezione dell’arte e la vita dell’artista: «A dare impulso a tutta l’opera di Rothko era ciò che lui definiva il “dramma umano”, cioè la consapevolezza acuta e perfino ossessiva che “la condizione umana è di essere mortale”, e che in questo si riassume tutto il “dramma umano”. Rothko, conferma Suzanne Pagé, ha cercato attraverso la sua pittura, evidentemente astratta, ovvero attraverso il solo linguaggio dei colori, di esprimere “le emozioni umane fondamentali: la tragedia, la morte e l’estasi”. Tuttavia, rifiutò di essere considerato un colorista, insistendo sul fatto che oltre ai colori cercava la luce».
 

«No. 14» (1960), di Mark Rohtko. Helen Crocker Russell Fund. © 1998 Kate Rothko Prizel Christopher Rothko Adagp, Parigi, 2023

«Ochre and Red on Red» (1954), di Mark Rohtko. © 1998 Kate Rothko Prizel Christopher Rothko Adagp, Parigi, 2023

Luana De Micco, 17 ottobre 2023 | © Riproduzione riservata

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