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Il ritratto di Michele Marieschi in un'incisione dell'epoca

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Il ritratto di Michele Marieschi in un'incisione dell'epoca

Il tragico destino di un matrimonio di convenienza

LA LAGUNA RACCONTA | Michele Marieschi, Angela Fontana, Francesco Albotto: legami tra famiglie «storico-artistiche»

Federica Spadotto

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Un proverbio popolare recita che i matrimoni combinati sono i più riusciti, in quanto, rispetto a quelli d’amore, non riportano data di scadenza. 
Chissà che cosa ne avrebbe pensato Michele Marieschi (Venezia, 1710-43), quando il 26 agosto 1737 andava recandosi presso l’Arte dei Luganegheri per vincolare l’ingente somma di 550 ducati a favore della futura sposa, Angela Fontana. Doveva apparire una sorta di miracolo al figlio di un modesto intagliatore, nonché nipote di un macellaio, disporre di tutto quel denaro (in realtà elargito dal suocero a titolo di garanzia per verificare le intenzioni dello sposo) dinanzi agli ufficiali dell’Arte.

Colui che oggi viene celebrato come uno tra più grandi vedutisti del suo tempo risultava solo un giovane di «belle speranze» ma con pochi quattrini e scarsa fama, cui serviva entrare nel giro giusto. Non sappiamo se l’amore o l’opportunità abbia tessuto le fila del matrimonio con la citata Angela, ma aver scelto come sposa la figlia di Domenico Fontana aprì a Michele le porte del successo.

Questi era uno tra i più importanti «bottegheri da quadri» di Venezia, vale a dire il gestore di una fondamentale componente del circuito commerciale legato in prevalenza ai generi minori, ovvero il paesaggio e la veduta. I brani campestri e i più suggestivi scorci della città marciana erano assai richiesti dai numerosi gentiluomini stranieri di passaggio in laguna alla ricerca di souvenir pittorici, venduti, appunto, nelle botteghe da quadri. In tali negozi-laboratori con esposizione sui campi o sulle calli e retrobottega, gli artisti confezionavano, spesso nell’assoluto anonimato, dipinti con temi alla moda secondo la prassi di un processo produttivo del tutto spersonalizzato.

A pochissimi capitava la fortuna di emergere dalla fitta schiera di «operai della pittura» e di guadagnare abbastanza per smarcarsi da tale meccanismo, al punto che l’attività  di «bottegher» veniva talvolta praticata dagli stessi artisti per arrotondare le entrate di un mestiere che per reddito e considerazione era equiparabile a quello di un modesto artigiano. Esistevano naturalmente alcune eccezioni, come nel caso del Canaletto, che tuttavia si trovò legato al console Joseph Smith, esclusivo gestore della sua produzione, al punto di dover fuggire in Inghilterra per incrementare i propri guadagni.

Alla luce di tali premesse l’opportunità di legarsi a Domenico Fontana dalla porta principale, ovvero il matrimonio con Angela, dovette apparire a Michele una sorta di miracolo; all’influente suocero l’artista deve infatti l’affermazione a primadonna del palcoscenico lagunare e con ogni probabilità l’iscrizione all’Arte dei Pittori, che lo consacra nell’istituzionalità di un ruolo per nulla scontato.

Dopo il matrimonio celebrato nel 1737, gli sposi prendono dimora per due anni in contrada San Zulian, per poi trasferirsi presso la casa di Domenico, nella centralissima contrada San Luca, sede peraltro della bottega del suocero. Quest’ultimo poteva quindi gestire al meglio il pittore, avendolo sempre a portata di mano e assumendo la completa regia della sua vita e del suo lavoro.

Spetta senza dubbio all’intuito commerciale del Fontana l’idea di confezionare nel 1741 l’album d’incisioni «Magnificentiores Selectioresque Urbis Venetiarum Prospectus» (cui Michele aveva dovuto attendere rinunciando all’assai più redditizio impegno pittorico) per contrastare il successo dell’omologa raccolta, pubblicata nel 1735, di 14 bellissime incisioni che Antonio Visentini aveva derivato dalle vedute eseguite da Canaletto per Joseph Smith.
All’ombra di un ben congegnato sodalizio s’intravede la figura di Angela, fragile donna dalla salute cagionevole che diede al marito una sola figlia sopravvissuta «con pericolo», come si legge nell’atto di battesimo, a un parto estremamente difficile.

Il 24 agosto 1738 vedeva la luce Elisabetta Maria Bortolamia, cui seguì, un anno più tardi, «una creatura nata morta». Nel 1740 nasce Rosa Giovanna Maria, sopravvissuta soltanto 15 giorni, mentre un’altra bambina senza vita viene partorita il 13 luglio 1742.

L’anno precedente era venuto a mancare Domenico e quello successivo (1743) avrebbe abbandonato precocemente questo mondo lo stesso Marieschi, lasciando la vedova in una situazione economica discreta ma non per questo tranquilla. Nel testamento emerge con estrema efficacia la preoccupazione del pittore nei confronti della figlia Elisabetta, verso cui si concentrano le disposizioni in quanto era ancora piccola e aveva una madre malata e con risorse in gran parte vincolate per garantirle una dote.

Nessun accenno affettuoso, nessuna sollecitudine da innamorato accompagnano le parole dell’artista alla moglie, se non il suggerimento di consigliarsi con Francesco Scotti, celebre bottegher da colori nonché amico di vecchia data dello suocero, per le future decisioni. Se nell’unione tra Angela e Michele l’amore ebbe un ruolo subalterno, fu del tutto scalzato dall’opportunità nel matrimonio tra la donna e Francesco Albotto (Venezia, 1721-57) di ben dodici anni più giovane di lei, allievo dello stesso Michele nonché suo emulo. Pare che la vita della donna fosse entrata in un perverso meccanismo in cui il padre, benché morto, continuasse a «usarla» come trait-d’union tra bottega e profitto.

La fortunata vicenda commerciale Fontana-Marieschi era però ben lungi dal riproporsi, sia per la scomparsa di Domenico, sia per le minori capacità e l’indolenza del giovane sposo, molto più interessato a divertirsi che a dipingere.

Il matrimonio, celebrato nel 1745, avrebbe dato alla coppia una figlia nata morta (16 giugno 1745) e una creatura miracolosamente venuta alla luce il 29 novembre 1751, che tuttavia spirò soltanto 12 giorni dopo. Il 31 dicembre dello stesso anno, minata da lunghissime sofferenze, anche Angela veniva a mancare a soli quarantadue anni, tramandando nel suo testamento uno stato d’animo misto di profonda amarezza verso il secondo marito e sollecitudine nei confronti della figlia Elisabetta.

Le parole, struggenti, assumono il tono della supplica: «Prego scusarmi se con testamento non li (a Francesco Albotto) lascio cosa alcuna dovendo pensar di provvedere detta mia figliola Elisabetta Marieschi […] che resta, dopo la mia morte, isolata e senza appoggio».

A garantire alla fanciulla tredicenne una quantomeno accettabile prospettiva economica rimaneva la somma depositata all’Arte dei Luganegheri, da cui è partita la nostra narrazione, che tuttavia le sarebbe spettata solo dopo il matrimonio o la monacazione. Ragione per cui appena quattro anni dopo Elisabetta si sarebbe sposata con un garzone di «malvasia» (bottega da vino), ma avrebbe dovuto avviare una procedura giudiziale di sequestro nei confronti del patrigno per ottenere quanto le spettava.

Nel frattempo l’Albotto, oberato di debiti, era riuscito a contrarre un nuovo, e questa volta assai più proficuo matrimonio, con la giovane figlia di un ricco fornaio, la cui dote servì ad appianare la disastrosa situazione economica dell’artista. La coppia andò all’altare il 13 settembre 1756 per poi soccombere alla luna nera che aveva inseguito gli altri protagonisti della vicenda: Francesco, infatti, spirò soltanto quattro mesi più tardi minato da «febbre et congestione di fegato et petto».

In questo tragico modo si chiude l’intreccio di tre vite, legate dall’opportunità e annientate dal destino, proprio come in una comedie larmoyante che purtroppo non riserva alcun lieto fine e nessuna speranza.

Il ritratto di Michele Marieschi in un'incisione dell'epoca

«Veduta del campo e delle porte dell'Arsenale», di Francesco Albotto, Fondazione Cariplo

«Veduta del Canal Grande con la Chiesa della Salute», di Michele Marieschi (prticolare). Parigi, Museo del Louvre

Federica Spadotto, 10 luglio 2020 | © Riproduzione riservata

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