La National Gallery, in occasione del centenario della nascita del pittore (1922-2011), presenta la retrospettiva «Lucian Freud: New Perspectives» (dall’1 ottobre al 22 gennaio). Freud, innegabilmente, è ovunque; negli ultimi due decenni, solo a Londra, è stata organizzata quasi una dozzina di mostre sul suo lavoro, tra cui quelle alla National Portrait Gallery nel 2012 e alla Royal Academy nel 2019. L’anno scorso il suo lavoro è stato esposto alla Tate Liverpool, mentre diverse mostre minori si svolgeranno in concomitanza con quella della National Gallery.
«La sua popolarità dimostra la qualità del suo lavoro: alla gente piace vederlo e c’è molto da vedere, dichiara il curatore Daniel F. Herrmann della National Gallery. Ma credo anche che molte esposizioni mostrino un approccio a Freud che è già stato visto in precedenza. Questo è un ottimo momento per riconsiderarlo ed è quello che stiamo cercando di fare».
L’approccio di Herrmann consiste essenzialmente nel riposizionare una figura importante: «In questo momento gli artisti più giovani sono interessati al suo lavoro, aggiunge. C’è una vera e propria rinascita della figurazione, di come trasmette messaggi, di che cosa può fare. Tutte queste domande si intersecano quando si pensa a Freud».
Herrmann afferma di ammirare «l’impegno di Freud nella pratica della pittura», che «si accompagna a una certa dose di radicalità. Il lavoro richiede e premia uno sguardo radicale. Si impara molto quando si cerca di capire come funziona ogni suo quadro». L’impegno di Freud nei confronti della carne e della nudità è una parte fondamentale di queste riflessioni. «Si tratta di verità. Non attraverso la semplice verosimiglianza o una sorta di fotorealismo, ma attraverso la veridicità: qual è la verità di una persona? Per Freud la vita è pittura, la carne è pittura, la pittura è carne».
Per sostenere la sua tesi circa la nuova rilevanza ottenuta dalla figurazione, Herrmann ha chiamato a contribuire al catalogo le artiste Tracey Emin, Jutta Koether e Chantal Joffe; tutte parlano della crudezza e dell’intimità raggiunte da Freud. Il curatore suggerisce, inoltre, che c’è stato un cambiamento nel modo in cui vengono visti i dipinti più spettacolari di Freud, come i ritratti di Leigh Bowery e Sue Tilley: «Dieci o vent’anni fa, veniva spesso definito un pittore dall’“occhio inflessibile” o dallo “sguardo crudele”. Ma in realtà, le cose che le persone trovavano crudeli derivavano dai loro giudizi sul soggetto ritratto. Freud dipinge una figura con un corpo al di fuori dei canoni tradizionali, e francamente la celebra. Questo è il motivo per cui oggi le persone sono interessate alla figurazione: è un modo per affrontare l’identità e la persona, ci fornisce un mezzo per pensare a noi stessi».
Herrmann tiene a sottolineare il legame che Freud aveva con la National Gallery, che a volte gli era concesso visitare fuori orario. È qui che l’artista maturò la volontà di fare riferimento ai capolavori del passato nelle sue opere, come nel caso di «Large Interior W11 (after Watteau)» (1981-83). Ma il curatore indica anche l’autoritratto nudo di Freud, «Painter Working, Reflection» (1993), che a suo avviso allude sia al dipinto in cui Vincent van Gogh raffigura i suoi stivali, sia all’autoritratto di Michelangelo nella pelle scorticata di san Bartolomeo nel «Giudizio universale».
Questa mostra fa il punto definitivo su Freud? Herrmann spera di no.