Yuri Primarosa
Leggi i suoi articoliPlautilla Bricci (1616-post 1690) consegna al tempo presente la sua rivoluzione silenziosa, quasi disinnescando le categorie che imbrigliavano la vita professionale e sociale delle sue colleghe seicentesche: né moglie, né monaca, né zitella in casa di parenti, ma signora romana, prima artista universale e donna «libera».
Come quasi tutte le artiste del suo tempo, Plautilla era figlia d’arte. Suo padre Giovanni Bricci, detto il Briccio, lavorava infatti come pittore nell’entourage del Cavalier d’Arpino, ma era anche un musicista, un poeta, un attore e un poligrafo. Fu certamente lui a procurarle i primi incarichi, come quello dell’icona di Santa Maria in Montesanto: una tela che nel 1640 diede alla giovane pittrice una notevole popolarità, anche perché, come si legge in un manoscritto incollato sul retro dell’opera, Plautilla riferì di averla trovata miracolosamente completata grazie all’intervento divino.
Giovanni, inizialmente, aveva ritagliato per lei un ruolo preciso, cucendole addosso un personaggio molto diverso da quello che Orazio Gentileschi aveva imposto ad Artemisia: non le trasmise una padronanza tecnica e dal naturale da enfant prodige, indispensabile per la produzione di quadri licenziosi raffiguranti «donne forti» a immagine e somiglianza dell’artista stessa; piuttosto la indirizzò verso il genere devozionale, destinandola a vivere «sempre nello stato virginale». La Briccia, infatti, non si sposò mai né entro in convento, e questa scelta le consentì di dedicarsi al suo lavoro a tempo pieno e in una condizione di indipendenza insolita per le donne del XVII secolo.
Il punto di svolta della sua carriera avvenne verso il 1655, quando, poco prima dei quarant’anni, avviò un rapporto di amicizia (o forse d’amore) con l’abate Elpidio Benedetti, agente a Roma di Giulio Mazzarino e poi di Colbert, che la introdusse nel vivace ambiente filofrancese della capitale pontificia e più tardi le affidò incarichi importanti sia nel campo della pittura sia in quello dell’architettura. Quest’ultimo aspetto della vita professionale di Plautilla è particolarmente rilevante, perché il suo impegno in veste di architetta rappresenta un caso unico per l’epoca: una circostanza talmente eccezionale da richiedere l’invenzione di un nuovo termine appropriato, quello di «architettrice», per sugellare il riconoscimento ufficiale della donna in un settore artistico riservato al tempo esclusivamente agli uomini.
La pubblica consacrazione di Plautilla nel campo della pittura giunse anch’essa negli anni Sessanta del Seicento, quando le fu commissionata la vasta lunetta con la «Presentazione del Sacro Cuore di Gesù all’Eterno Padre» per il complesso del Laterano (1669-1674). L’orgogliosa firma di «Plautilla Briccia Romana invenit et pinxit» sotto la gamba dell’angelo che regge il globo è analoga a quella da lei inserita nella pala di San Luigi dei Francesi (1676-1680), posta al centro della grandiosa cappella che progettò per l’abate Benedetti: l’artista preferì rivendicare a sé la paternità dell’invenzione dell’opera (prerogativa dei grandi maestri) piuttosto che attribuirsene, con un semplice fecit, la sola autografia.
In occasione del giubileo del 1675, inoltre, Plautilla licenziò il suo capolavoro: lo stendardo di Poggio Mirteto, ancora grazie alla mediazione di Elpidio. Tali opere hanno offerto elementi sufficienti per aggiungere al suo catalogo la bellissima «Madonna del Rosario» del duomo mirtense, finalmente liberata da secolari patine di sporcizia e vernici ossidate: si tratta del suo ultimo dipinto oggi noto (1683-1687) che, assieme agli altri, rivela affinità con il composto cortonismo di uno dei migliori allievi di Pietro Berrettini: il viterbese Giovan Francesco Romanelli. Questo e molto altro ancora nella prima mostra mai dedicata all’artista romana («Una rivoluzione silenziosa. Plautilla Bricci pittrice e architettrice» alla Galleria Corsini di Roma dal 5 novembre 2021 al 19 aprile 2022).
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