Guglielmo Gigliotti
Leggi i suoi articoliÈ probabilmente il primo Tempio diruto della storia dell’architettura, e lo volle il cardinale Alessandro Albani, nel giardino della sua sontuosa Villa sulla via Salaria, alle porte di Roma, costruita su progetto di Carlo Marchionni dal 1747 al 1763. Johann Joachim Winckelmann si occupò di ordinare l’immane collezione di opere d’arte antica lì allestita, Anton Raphael Mengs affrescò sulla volta del salone principale il Parnaso, e si presume che Giovan Battista Nolli abbia operato nella sistemazione a terrazzamenti, giardini ed edifici minori dell’ampia area circostante la Villa (dall’acquisizione nel 1866, divenuta Albani-Torlonia).
Ma non è di sua firma il Tempio diruto, che un’antica ara, lì collocata, fa immaginare dedicato al dio Silvano. In verità non si sa chi ne fu l’ideatore, e neanche il restauro, appena compiuto, è riuscito a far luce sulla questione. Di sicuro fu architetto di genio, una personalità capace di captare al suo sorgere una rivoluzione della concezione dell’arte e della storia, non più fondate su fatti e forme compiute, ma su presenze che incarnano il processo vitale della propria consunzione e le tracce del tempo: la falsa rovina come forma aperta e come creazione all’incontrario, perché costruzione di distruzione.
Il restauro, deciso dalla Fondazione Torlonia, diretta da Carlotta Loverini Chigi, è stato diretto dall’architetto Damiano Minozzi della società Acam, e svolto dall’impresa di restauro edile Fratelli Navarra. Due anni di intenso lavoro, tra studi preliminari, sondaggi sui materiali, organizzazione del cantiere e coordinamento con la Soprintendenza speciale di Roma. Tra i momenti più delicati, quelli in cui si è dovuto discernere il degrado effettivo dovuto al tempo, dal degrado simulato dovuto all’ingegno. Spiega l’architetto Minozzi: «Il restauro di una falsa rovina presuppone un importante interrogativo: quanta parte delle mancanze, dei crolli, del deterioramento sono componenti dell’immagine del monumento?».
Di qui il serrato confronto svoltosi tra architetto, restauratori dei Fratelli Navarra e funzionari del Ministero della Cultura. Su una cosa si ha invece certezza: «Il tempio nacque anche come una voliera, ne abbiamo scoperto le tracce». Finto tempio diruto, contenente rari uccelli, che fa da sfondo a concerti di musica classica, tra il frusciare di alberi frondosi e il ruscellare dell’acqua che sgorga dal basamento del Tempio stesso: in questa veste edenica bisogna immaginarsi l’atmosfera voluta dal cardinale Alessandro Albani, amatore anche di musica e di concerti in giardino. Dalla sua grande collezione d’arte antica (nella Villa sono presenti ancora 1100 manufatti, tra quelli risparmiati dal trasferimento alla Collezione Torlonia), derivano di certo i materiali di spoglio di cui è in parte costituito l’edificio.
Antiche sono infatti le colonne scanalate ad elegante andamento tortile del pronao, e antichi i pilastrini a sezione quadrata dei due lati, anche quelli che risultano frammentari. Di età classica sono i capitelli, il rilievo figurato del fregio della trabeazione, e anche la summenzionata ara. I grandi blocchi tufacei in opera quadrata del basamento sono addirittura di età repubblicana. Ma moderne, per quanto «antichizzate» sono le lesene (in stucco) e i loro capitelli, le modanature della cornice perimetrale, per non dire la parte del pronao simulante un crollo: con gusto pre-romantico, l’inventore di questo immaginoso congegno ha dovuto progettare le cadute, cesellare il logoramento, produrre artatamente i danni degli agenti atmosferici.
«Abbiamo svolto il restauro conservativo, ma anche il consolidamento strutturale», spiega Minozzi, «intervenendo con accorgimenti locali minimi, come il rinsaldamento di alcune colonne, ma anche sulle giunture tra le pareti, che manifestavano lesioni e distacchi». Anche il rivestimento murale esterno ha visto i restauratori all’opera: concepito come imitazione dipinta e incisa di opera laterizia, ha preteso una pulitura generale.
Fece scalpore al suo prima apparire questa fantastica macchina del tempo a ritroso. L’abate Cesare Cordara, gesuita, scrittore e appassionato di antichità, nel 1766 ne parla in termini entusiastici: «È uno dei più bei capricci che siano mai venuti in capo ad alcuno essendo cosa senza esempio che si alzi da fondamenti una fabbrica per fingere una vera rovina». Vari studiosi, tra cui ultimamente Alberta Campitelli nel volume della Fondazione Torlonia «Villa Albani Torlonia. Architetture, collezioni, giardino», edito da Electa, ipotizza, quale autore del gioiello rovinistico, Charles-Louis Clérisseau.
Nato a Parigi nel 1721 e morto quasi centenario nel 1820, Clérisseau si trasferì in Italia grazie a un Prix de Rome vinto nel 1746, per la classe architettura. Qui si specializzò in disegni architettonici e in dipinti di rovine e capricci, a volte molto arditi, come la «Stanza delle rovine» nel Convento di Trinità dei Monti. Inoltre lavorò come decoratore presso la Galleria del Canopo nel Kaffehaus della Villa Albani, anche se ora queste pitture sono perdute. A raccomandarlo al cardinale Albani fu Johann Joachim Winckelmann. Ecco di nuovo apparire il nome del fondatore della moderna metodologia scientifica rivolta all’arte, che, molto ascoltato dal cardinale mecenate, non può non aver influito sulla sensibilità storicistica implicita nella concezione di questa falsa rovina.
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